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L’ambasciatore egiziano a Roma ha rifiutato le 150.000 firme per la liberazione di Zaki

L’iniziativa condotta da Amnesty International Italia per chiedere la liberazione dello studente dell’Università di Bologna si scontra con il “no” al dialogo da parte del Cairo

Martedì 8 settembre ricorrevano i sette mesi dall'arresto di Patrick George Zaki, studente egiziano dell'Università di Bologna e attivista per i diritti umani, detenuto in Egitto dallo scorso febbraio con l’accusa di “propaganda sovversiva”. In questi mesi Amnesty International Italia ha raccolto oltre 150.000 firme per chiederne la liberazione, anche perché lo studente e attivista era stato arrestato all’aeroporto del Cairo in circostanze ancora non chiare.

Durante la giornata, una delegazione di Amnesty aveva cercato di consegnare questa petizione in forma privata all'ambasciata d'Egitto a Roma. Tuttavia, il risultato non è stato quello atteso. «Purtroppo – racconta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia – quelle firme ce le siamo dovute portare indietro, perché senza dare alcuna motivazione l’ambasciata ha rifiutato di riceverle. La decisione è preoccupante, anche scortese, perché si trattava di un atto formale notificato nei giorni scorsi, ma è il segnale di una completa indisponibilità anche al minimo dialogo».

Per la prima volta dallo scorso 9 marzo, sabato 29 agosto Zaki aveva potuto incontrare un membro della sua famiglia. La madre aveva raccontato che, a parte la perdita di peso, suo figlio era in buona salute, anche se queste informazioni sono così frammentarie da dare un quadro troppo vago, di fronte a numerose problematiche personali e anche collegate al luogo in cui è detenuto. Zaki, infatti, soffre di asma e si trova in un carcere in cui il Covid-19 è entrato e dove ha fatto vittime. «C’è un altro motivo di preoccupazione», aggiunge Noury, «l’assoluta incertezza sulla sua situazione giudiziaria. A oggi non abbiamo neanche una data della prossima udienza per decidere se rinnovare o meno la detenzione preventiva».

Lo scorso 7 febbraio Zaki era tornato in Egitto per una vacanza nella sua città natale, Mansoura, ma una volta arrivato al Cairo era stato arrestato senza una spiegazione. Pochi giorni dopo era stato informato di essere accusato per aver pubblicato notizie false “con l’intento di disturbare la pace sociale”, di “aver incitato proteste contro l’autorità pubblica”, di “aver sostenuto il rovesciamento dello Stato egiziano” e di aver usato i social network per “minare l’ordine sociale e la sicurezza pubblica”, oltre ad “aver istigato alla violenza e al terrorismo”. Eppure Zaki fa parte di una minoranza, quella copta, di cui il presidente al-Sisi si propone come difensore. Quando nel luglio del 2013 l’allora generale aveva rovesciato il presidente Mohamed Morsi, tra le ragioni del colpo di Stato c’era stata proprio quella di impedire ai Fratelli Musulmani di imporre la legge coranica nel Paese. A sette anni di distanza da quell’operazione, il potere di al-Sisi sembra saldo, ma il consenso presso queste comunità appare a rischio. «Quando ci fu il colpo di Stato – ricorda Noury – la comunità copta fu contenta, perché pensava di essersi lasciata alle spalle un periodo di attacchi e di vittime, ma con il passare degli anni sotto al-Sisi non si è sentita molto più sicura. Di certo l’arresto di un appartenente a una famiglia copta, peraltro anche vicina al regime, ha creato qualche ulteriore crepa».

Eppure, sarebbe ingenuo pensare che il sistema di potere su cui si regge al-Sisi sia legato soltanto alla sua persona o alla politica interna egiziana. La solidità del regime si regge anche sulle relazioni internazionali con i Paesi occidentali, tra cui l’Italia, che commerciano armi e idrocarburi con il Cairo nonostante le sistematiche violazioni dei diritti umani. A proposito delle forniture di mezzi militari, poi, si rafforza ogni giorno il paradosso di armare un governo che nel contesto della guerra civile libica sostiene Khalifa Haftar, il maresciallo della Cirenaica che si oppone al governo di Tripoli, appoggiato invece dall’Italia e dalle Nazioni Unite. «Nei confronti dell’Egitto – sostiene il portavoce di Amnesty – c’è una continuità di approccio sempre molto collaborativa, sempre molto interessata a tenere insieme aspetti della relazione bilaterale, che siano aspetti geopolitici, che siano aspetti legati all’energia, che siano aspetti riguardanti ciò che accade nei Paesi vicini, come la Libia. C’è sempre qualche tema che è più importante dei diritti umani». Questa complicata natura del potere egiziano, che applica una repressione durissima e che è al centro di un sistema di sparizioni forzate documentato da anni di inchieste, fornisce un’immagine molto solida, a cui tuttavia non fa da contraltare una reale forza. «L’Egitto – conclude Riccardo Noury – è un Paese governato da uno stato d’emergenza, che si regge sulla repressione e l’impunità. Non è quel tipo di partner con cui avere collaborazioni particolarmente strategiche, eppure si continua a fare questo errore».

Nonostante il rifiuto da parte dell’ambasciatore egiziano di ricevere la delegazione di Amnesty e le firme raccolte, la campagna per la liberazione di Patrick Zaki continua con numerose iniziative. Il prossimo 8 ottobre, infatti, si tornerà di fronte all’ambasciata dell’Egitto a Roma per consegnare ancora una volta la petizione, preceduta da una lettera formale e dalle attività sul territorio. Tra queste, spicca l’aquilone con impresso il volto di Zaki che verrà fatto volare il prossimo 12 settembre a Cervia, in provincia di Ravenna. Un simbolo di libertà, un’immagine che tutti coloro che stanno cercando di ottenere la liberazione dello studente sperano di potergli consegnare il prima possibile.

 

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