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Informazione. La sua libertà è in serio pericolo

Ieri 3 maggio in tutto il mondo è stata celebrata la Giornata mondiale per la libertà di stampa

«Ci sono Giornate che non sono semplici ricorrenze e ci sono “date” che non sono solo da celebrare. È il caso del 3 maggio, scelto ventisette anni fa dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite come Giornata mondiale della libertà di stampa per ricordare tutti i giornalisti che hanno perso la vita facendo il proprio lavoro, per accendere i riflettori su quanti, per questa loro professione, sono minacciati o imprigionati; per ribadire quanto la libertà d’informazione sia la pietra angolare su cui poggia ogni democrazia e come sia un impegno da rinnovare costantemente: garantire l’esistenza di una stampa indipendente e pluralista», ha ricordato ieri su Articolo 21 Andrea Martella, il sottosegretario all’editoria.

Una testimonianza importante in un momento in cui in Italia sono davvero tanti i giornalisti che hanno subito intimidazioni, minacce, ritorsioni, abusi che si configurano come violazioni del diritto all’informazione. 

Ma quanti sono i giornalisti in Italia oggi messi sotto pressione, sotto minaccia, che vivono grazie alla protezione dello Stato e sotto scorta?

L’osservatorio Ossigeno per l’informazione, che da tempo si occupa di aggiornare queste tristi statistiche, ha riscontrato che 523 giornalisti sono stati presi di mira per il loro lavoro in questi ultimi due anni. Cifra che aumenta a 1886 se analizzata negli ultimi cinque. 

Dati più “ricchi”, dicono, di altre fonti che ne contano meno, come ad esempio il Ministero dell’Interno che lascia fuori dall’infausta conta «chi non denuncia e gli abusi e le querele pretestuose», afferma Ossigeno.

Le statistiche aggiornate e relative alle intimidazioni ai giornalisti e ai blogger italiani rilevate nel 2019 (raffrontate con i dati raccolti nel 2018 e messi fra parentesi), dicono che nel corso del 2019 sono state 472 (959) le intimidazioni e le minacce. 

L’esame approfondito e condotto su 253 (270) di queste 472 (959) intimidazioni e minacce ha fornito poi i seguenti dettagli. Il genere delle vittime: 77% (79%) uomini, 23% (21%) donne.

La tipologia delle minacce: 30,8% (32,2%) abuso di denunce e azioni legali; 66,4% (61,1%) atti violenti (dei quali: 37,5% (31,9%): avvertimenti; 19% (23,3%); aggressioni; 9,9% (5,9%); danneggiamenti 2,8% (6,7%), ostacolato accesso all’informazione.

Le Regioni che hanno registrato il più alto numero di minacce sono risultate essere 4: il Lazio 62 pari al 24,5%, seguita in classifica dalla Campania 36 pari al 14,2% (54 pari al 20%), la Sicilia 26 pari al 10,3% (41 pari al 15,2%) e la Lombardia (23 pari al 9,1%).

Le giornaliste minacciate in Italia tra il 2015 e il 2019 rappresentano il 21% dei cronisti che hanno subito attacchi e violazioni a causa del loro lavoro in quello stesso periodo. 

Una percentuale che aveva già raggiunto il 24% nei primi tre mesi del 2019. 

Su un totale di 73 giornalisti minacciati, 18 erano giornaliste.

Un problema serio quello della libertà di stampa e di dimensioni mondiali, ovviamente molto sentito anche del mondo delle religioni. 

Non a caso è nato il Manifesto di Assisi, il decalogo delle buone azioni in tema d’informazione.

Non a caso la moderatora della Tavola valdese, Alessandra Trotta recentemente ha dichiarato in occasione dell’ultima edizione del Premio Roberto Morrione, sostenuto con i fondi Otto per mille dell’Unione delle chiese metodiste e valdesi: «Il giornalismo d’inchiesta e la stampa libera svolgono un ruolo fondamentale nel preservare la nostra democrazia. Saper comunicare è importante. Poter essere informati è un diritto. I «giornalismi», al plurale, che auspichiamo sono quelli in grado di illuminare le periferie dimenticate, di far emergere ciò che è stato sommerso operando con educazione, cura dei dati trattati, discernimento, etica professionale e controllo delle fonti». 

Un’opera di grande sensibilizzazione ha accompagnato l’attesa della Giornata e la giornata stessa: la maratona social di Articolo 21 iniziata un mese prima dell’appuntamento di ieri con testimonianze video, articoli e contributi audio che culminata con un tweetstorm per sottolineare una delle situazioni più gravi in Europa, quella dell’Ungheria con l’hashtag:  #nobavaglioungherese.

L’obiettivo era rilanciare la necessità di mantenere alta l’attenzione sui numerosi tentativi, spesso riusciti, di imbavagliare la stampa e dunque di abbassare in modo pericoloso il livello della libertà dei giornalisti e della circolazione dell’informazione e in un momento in cui ve ne è più bisogno. «La “battaglia” per difendere la libertà di stampa è complicata e si muove su due binari – ha ricordato il direttore di Articolo 21, Stefano Corradino–: da una parte vi è la necessità di affermare che il diritto a essere informati è un diritto che deve valere in tutti i Paesi del mondo. Un’emergenza che è una vera e propria pandemia, che purtroppo prosegue da tempo e che oggi può essere accostata a quella sanitaria. Dall’altra, la necessità di evidenziare i gap già esistenti nel mondo, come la gravissima situazione in Turchia e in Egitto, solo per citare due esempi. Luoghi insicuri per i cronisti poiché le violazioni dei diritti e delle libertà di stampa sono diventate, purtroppo, una prassi consolidata».

Minacce che spesso si traducono in omicidi come ricordano i dati dei primi mesi del 2020 con 11 i giornalisti uccisi. Nel 2019 sono stati 49 gli operatori dell’informazione assassinati per via del loro lavoro. 

Il numero di Paesi considerati sicuri continua ad aumentare.

La classifica di Reporters Sans Frontières (Rsf) per la libertà di stampa ricorda, ad esempio, che la Cina si situa al 177esimo posto, l’Iran al 173esimo posto, l’Iraq al 162simo. Medio Oriente e Nord Africa continuano ad essere le regioni del mondo più pericolose per gli operatori dell’informazione, mentre la regione Asia-Pacifico ha registrato il più grande aumento di violazioni alla libertà di stampa con un incremento dei casi pari all’1,7 per cento. Una triste lista che vede come ultima in classifica la Corea del Nord al 180esimo posto. Per chiudere con una nota di speranza l’Italia sale di due posizioni e si attesta al 41 posto. Forse denunciare il fenomeno porta qualche frutto.

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