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Quale parola per dire “Dio”?

Giustizia, misericordia, perdono nell'ultimo libro di Gabriella Caramore

Un giorno chiesi a Gabriella Caramore: «Per chi scrivi i tuoi libri?». Mi rispose più o meno così: «Li scrivo per chi, essendo troppo vicino a Dio, non capisce più quanto sia problematica e discutibile la fede in lui; e li scrivo per chi, essendo troppo lontano da Dio, non riesce più neppure a riconoscere il peso e il valore che la parola “Dio” ha avuto e continua ad avere nell’esperienza e nella storia dell’umanità». I «troppo vicini» e i «troppo lontani» sono dunque i primi, anche se non gli unici, destinatari anche di quest’ultimo libro*, agile e denso, nato, come lei stessa confida (p. 133), nello spazio della trasmissione Uomini e profeti di Rai RadioTre, da lei condotta per vent’anni, nel corso dei quali si è «appassionata» alla parola “Dio”, con cui lei ora, scrivendo queste pagine, si è confrontata direttamente e personalmente, da sola, un po’ come (si licet parva componere magnis) Giacobbe alle prese con l’angelo, per tutta una notte, al guado di Iabbok (Esodo 32, 22-32).

Il libro si apre rievocando un dialogo avvenuto a Marburgo, negli anni Venti del secolo scorso, tra Martin Buber e un anziano professore universitario. Buber gli stava leggendo un suo testo, e a un certo punto il professore lo interruppe per manifestare il suo stupore che Buber adoperasse così spesso e con tanta disinvoltura la parola “Dio”, dato che – disse – «non c’è nessun’altra parola del linguaggio umano così maltrattata, macchiata, oltraggiata». Buber si dichiarò d’accordo e disse: «Sì, è la parola più sovraccarica del linguaggio umano. Nessun’altra è stata così insudiciata, così lacerata. Ma proprio per questo non devo rinunciare ad essa». Certo, «non possiamo lavare di tutte le macchie la parola “Dio”, e nemmeno lasciarla integra; possiamo però sollevarla da terra e, macchiata e lacera com’è, innalzarla sopra un’ora di grande angoscia». Ma è davvero possibile, oggi, un secolo dopo, fare quello che Buber sperava di fare allora? «La posta in gioco», come la chiama l’autrice, è «capire se c’è un nucleo, un nervo che si possa salvare dentro questa parola […], se sia possibile farla ancora vibrare di quelle scintille che per secoli l’hanno tenuta in vita, ma senza aggirare il confronto con un’umanità radicalmente distante da quella che confidava pienamente in essa» (pp. 4-5).

Certo, un discorso di questo genere reca in sé innegabilmente qualcosa di paradossale, per non dire di surreale, dato che ribalta completamente l’impostazione che per millenni ha regolato il rapporto tra l’uomo e Dio, secondo la quale Dio era il salvatore e l’uomo il salvato. Ora è il contrario: non è più Dio che salva l’uomo, ma l’uomo che decide se valga la pena, oppure no, di salvare Dio! Infatti, la domanda di fondo che percorre tutto il libro: è possibile «salvare la parola “Dio”» (e quindi anche Dio stesso) come parola umana ancora o di nuovo carica di senso e di valore? Prima di rispondere, è però il caso di segnalare il capitolo centrale del libro (pp. 41-83), che è una bella, ricca esposizione di pensiero biblico, nella quale l’autrice mette a frutto la sua conoscenza intelligente delle Scritture (Antico e Nuovo Testamento), acquisita attraverso tante puntate di Uomini e Profeti, ma soprattutto in una vera e propria lectio divina laica e continuata di quasi tutta la Bibbia, svolta per tre anni di seguito – impresa mai compiuta in Italia attraverso un mezzo di comunicazione di massa come RadioTre.

Ma torniamo alla domanda: «È possibile salvare la parola “Dio”»? La risposta del libro è questa: Sì, è possibile, a una condizione: che questa parola si traduca in amore – non «amore sentimentale», ma «assunzione su di sé del peso dell’altro», e che questo amore venga a sua volta «declinato nel senso della giustizia e della misericordia» (p. 88). In pratica la proposta è: invece di parlare di Dio, si parli piuttosto di giustizia e misericordia. Così l’uomo d’oggi capirà meglio (o per la prima volta!) di che cosa si parla quando si parla di Dio.

Soddisfa questa risposta? Sì e no, o meglio: soddisfa con una riserva. Perché soddisfa? Perché effettivamente giustizia e misericordia sono le due grandi passioni di Dio che, come sappiamo, preferisce giustizia e diritto piuttosto che culti solenni e cerimonie religiose (Amos 5, 21-24!) e vuole misericordia e non sacrificio (Matteo 12, 7!). Giustizia, quindi, sì, a tutto campo, nel senso inclusivo della Bibbia, che comprende sia la giustizia retributiva di cui parlano molti passi della Scrittura, e in particolare parecchi Salmi, sia l’altra giustizia, più che mai di Dio, anzi solo sua, quella che «giustifica l’empio» (Romani 4, 5) – immeritatamente, incomprensibilmente, incondizionatamente: questo è il «cielo» in cui Dio abita! E così la misericordia, sì, purché sia quella radicale di Dio che ama ciò che non è amabile, che dimentica tutto il resto per cercare il perduto finché lo trova, che trae su il povero dal letame per farlo sedere con i principi (Salmo 113, 7).

Alla giustizia e alla misericordia si sarebbe potuto aggiungere il perdono, che certo sta sia dentro la giustizia sia dentro la misericordia, ma forse valeva la pena non lasciarlo nell’implicito, ma farne, insieme alla giustizia e alla misericordia, il terzo specchio di Dio, no, molto più che specchio, il cuore stesso di Dio, la sua natura profonda e verità segreta – il perdono inatteso, incomprensibile, scandaloso, miracolo puro, grazia assoluta: l’adultera doveva essere lapidata secondo la santa Legge di Dio (Levitico 20, 10), e invece no, nessuno la condanna perché Dio, per mezzo di Gesù, non la condanna. La Legge è importante, ma non è Dio. Dio dà la Legge, perché ne abbiamo bisogno, ma Lui non è Legge, bensì Grazia, di cui abbiamo ancora più bisogno. Sì, giustizia – misericordia – perdono, questa santa trinità, è il significato della parola “Dio”, di più Dio è questa santa trinità. Perciò la risposta del libro alla domanda se sia possibile salvare la parola “Dio”, soddisfa.

Ma qual è la riserva? È questa: che il nome di Dio non si esaurisce nel significato della parola “Dio”. Gli Ebrei lo hanno capito, perciò pronunciano la parola Dio, ma non pronunciano il nome di Dio, cioè il famoso «tetragramma sacro» rivelato da Dio a Mosè: Esodo 3, 14. Perciò da un lato è giusto e salutare insistere sul significato della parola “Dio”, ma dall’altro va ricordato che il nome di Dio è qualcosa d’altro rispetto alla parola “Dio” e ai suoi significati, i quali, quindi, non possono sostituire il nome di Dio, prendendone il posto. Forse è questo che la Bibbia intende quando associa il nome di Dio al suo «timore» (Malachia 3, 16), che chiama «principio» e «scuola di sapienza» (Proverbi 9, 10 e 15, 33).

In conclusione, questo libro farà del bene non solo a chi è «troppo vicino» e a chi è «troppo lontano», ma anche a chi non sa neppure bene dov’è (perché non sa dov’è Dio) e perciò non sa dove andare. Qui, se vuole, troverà una pista.

* G. Caramore, La parola Dio. Torino, Einaudi, 2019, pp. 131, euro 12,00.

Foto: Raffaello, Dio padre benedicente tra due angeli

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