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Dino Buzzati alla Cuneo-Pinerolo

Il giornalista e scrittore seguì il Giro d'Italia del 1949

Sono passati settant’anni da quando uno dei più straordinari scrittori italiani del ‘900, Dino Buzzati, seguì il Giro d’Italia per conto del giornale per il quale lavorava, quel «Corriere della sera» a cui rimase legato sempre, e in cui alcuni – su suggerimento dell’autore, non necessariamente attendibile – videro l’equivalente della Fortezza Bastiani, quella del «Deserto dei Tartari»: l’avamposto affacciato su un confine, a sua volta affacciato sul deserto, quest’ultimo a sua volta affacciato sul nulla, come la redazione del quotidiano. Quel luogo dove il cronista di turno passava la notte in attesa di notizie che potevano arrivare come non arrivare.

Buzzati segue nel 1949 un Giro epico, uno dei tanti che videro la lotta strenua fra Bartali e Coppi (quest’ultimo vincerà, alla fine, ma le tre ultime tappe furono seguite da un altro cronista), uno di quei Giri d’Italia dell’immediato dopoguerra, che vedevano il Paese cercare di ricomporsi dopo il dramma, attorno alle due figure rivali sospinte dalle cronache radiofoniche. Ne nacque un libro, che figura a buon diritto nell’edizione completa delle opere dello scrittore da parte di Mondadori.

Anche nel 1949, comunque, il Giro fece tappa a Pinerolo: era il 10 giugno, si correva la Cuneo-Pinerolo, con un tragitto, però, che sconfinava in Francia proponendo alcuni durissimi passi alpini, l’Izoard su tutti. La vena immaginifica e fantastica di Buzzati (che parte della critica ha inspiegabilmente avvicinato a Kafka: non c’entra nulla) dipinge con tratti icastici il dramma che si sta consumando, cioè la sostanziale sconfitta di Bartali, ma anche il contesto paesaggistico: una tappa «divoratrice di uomini»‚ per la quale «Misteriosamente era giunto l’autunno, la strada era deserta (...) la carovana si sarebbe trovata a tarda sera senza più forze, in un deserto di rupi e di ghiacci (...). Solo di quando in quando i tendaggi di nebbia si aprivano, lasciando intravedere remote cime nerastre». Si trattava della Valle Stura, a cui seguivano i passaggi per la Maddalena, il Col di Vars, l’Izoard, Briançon, Monginevro, il Sestrière [con l’accento]: «l’ultimo supplizio per castigare i peccati dell’uomo»; e poi Cesana, verso Pinerolo.

E se alla fine la corsa sancisce la sconfitta del toscano, nondimeno, pur distanziati, entrambi sono protagonisti di una tenzone in cui ogni italiano o italiana poteva vedere Ettore o Achille, ai quali Buzzati li paragona, dicendo del toscano: «... era uno spettacolo quell’uomo solo nella selvaggia gola in lotta disperata contro gli anni (...). Senza più vedersi perché ogni minuto si ampliava tra di loro la barriera di valloni, di rupi, di foreste, gli avversari lottarono fino alla fine». Il giorno dopo fu la volta della Pinerolo-Torino, tappa a cronometro. L’unica gara – scrive Buzzati quasi evangelicamente – «dove gli ultimi arrivano per primi e i primi arrivano per ultimi». Ognuno sfida se stesso, e, per una volta, «i gregari (...) fanno i signori, non c’è pericolo che il principale chieda loro una ruota o li spedisca a comperare l’aranciata fresca».

L’ultimo «eccita la curiosità e le simpatie del pubblico assai più del settimo o dell’ottavo in graduatoria. L’ultimo diventa un po’ la bandiera di tutti i diseredati e infelici di questa terra; in lui trovano una specie di fratello coloro che nel teatro della vita non sono riusciti che a conquistare un posto in piedi nel loggione e forse neppure quello». Ecco, appunto, il teatro della vita. Questo è lo sport; questo era anche, nella visione di Buzzati, l’armamentario e lo scenario della Fortezza Bastiani.

Uno specchio in cui i caratteri nostri e altrui si riflettono alla ricerca del loro senso: salvo che già allora, nell’Italia che provava a ripartire dalle macerie (quelle che erano state co-protagoniste dei film di Roberto Rossellini, «Paisà», «Roma città aperta», e di Zavattini – De Sica) la realtà non bastava a spiegare le aspirazioni: e via via, con lo sviluppo del «boom» le aspirazioni (quelle legittime e anche le tracotanti) crebbero a dismisura, e non tutte potevano incarnarsi nella vita reale. Così, Buzzati si diresse sempre più verso il racconto fantastico (a differenza di Kafka, che vive di puro realismo, sia pure estremizzato) e lo sport si indirizzò verso il «tutto e subito»: tocca vincere, perché vincere porta quattrini, e quelle sconfitte di una volta, piene di dignità, come quella di Bartali a Pinerolo ‘49, sono un ricordo ormai sbiadito. Salvo poi scoprire che Bartali aiutava gli ebrei in fuga dallo sterminio: altri tempi, altro spessore.

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