Il sogno di Giuseppe
27 marzo 2019
La storia in poesia di un recluso, di un emarginato che dal fondo di una cisterna vede meglio degli altri, e attraverso il linguaggio dei sogni ritrova il proprio riscatto
Il museo come luogo in cui le storie rimangono attuali e non relegate a un passato sempre più remoto. Questo era il tema delle giornate del 23 e 24 marzo al Memoriale della Shoah di Milano. Il museo in tempo reale si è svolto attraverso incontri, performance, narrazioni e riflessioni, articolati secondo delle coppie tematiche di riflessione: l’abbandono e la cura, la deportazione e il ritorno, l’inganno e lo svelamento, lo smarrimento e il ritrovarsi, la segregazione e la libertà, la violenza e la relazione.
La storia e le idee sono in continuo movimento e queste giornate, in particolare in un luogo come il museo della Shoah, hanno voluto ribadirlo.
All’interno del programma era prevista la lettura del poemetto di Stefano Raimondi, poeta e critico letterario, Il sogno di Giuseppe, uscito da poco per Amos Edizioni.
Ne parla l’autore, Stefano Raimondi.
Come nasce l’opera?
«Il sogno di Giuseppe è un poemetto che ho iniziato a scrivere nel 2003 ed è un testo che alla base ha la voce di un cancellato. Molti di noi sono dei cancellati che riescono a riaffiorare attraverso le parole e la poesia. La poesia porta il senso di un presente che recupera il percorso delle parole che arrivano da molto lontano, ha la capacità di accogliere il rotolare delle parole lontane, e lanciarle in un perpetuo presente».
Ma chi è Giuseppe e come emerge dal racconto biblico?
«Giuseppe è una figura emblematica, è la voce di un relegato, di un segregato. Colui che come sappiamo è stato gettato dai fratelli in una cisterna per invidia. Però da questa situazione di chiusura, Giuseppe ha la facoltà di sognare e di interpretare i propri sogni, ed è questo che lo porta alla libertà. Lui viene poi infatti liberato, graziato e la sua vita muta grazie alle sue facoltà. Interpreta i sogni del re e i sogni che accadono agli altri. La voce del sognatore appartiene un po’ a tutti, la sua è quella di qualcuno non lontano dalla realtà ma è colui che la interpreta, la trasforma e la vede in un altro modo. È un po’ come se Giuseppe sognasse per tutti: come nella favola de Le Mille e una notte Shahrazād riesce a vivere proprio perché ogni giorno racconta una fiaba che la fa mantenere in vita, così Giuseppe nonostante sia nel buio, riesce a percepire una possibilità di luce. Rimane comunque una voce dal sottosuolo, una voce ai margini, di chi non ha luogo o ha un luogo che non gli appartiene, ma proprio per questa mancanza Giuseppe è una voce desiderante, che nonostante sia lontano dalle stelle è sempre colui che le vede».
È anche una storia di riscatto...
«Un riscatto che nasce da una presa di coscienza di sé, dalla capacità di dare fede ai propri sogni e al proprio sentire. Questo è secondo me un punto fondamentale per radicarsi nella propria esistenza e nella propria vita: sentirsi presente in qualunque luogo».
Cosa può insegnare la storia di Giuseppe al mondo contemporaneo?
«Quella di Giuseppe è la storia di un migrante, di uno arrivato e gettato in un luogo che non è più casa; è una figura che ha cambiato contesto, non ha le sue radici, non parla la sua lingua madre. Lui però ha la lingua dei sogni ed è questo che lo rende una persona uguale a tutti gli altri. In questo linguaggio che unisce c’è la possibilità della relazione. Giuseppe è l’estraneo, è il recluso e proprio in questo suo stare ai margini c’è una visione molto più ampia delle cose. Nonostante stia nella cisterna sente la voce dei mercanti, sente la voce della città e riesce a capire molto di più di chi vive ciecamente la propria vita fuori».