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In carcere si muore sempre di più

Il 2018 segna un netto aumento dei suicidi tra le persone detenute, un fenomeno legato non soltanto al sovraffollamento, ma all’idea stessa che abbiamo del carcere

L’inizio del mese di novembre ha confermato attraverso i numeri una sensazione: le carceri italiane stanno ritornando a una situazione di criticità che negli ultimi anni si pensava potesse essere contrastata, seppure con un lungo percorso. L’ultimo suicidio avvenuto nel carcere di Salerno il primo novembre ha segnato il sorpasso rispetto allo scorso anno: se nel 2017 erano state 52 le persone che si erano tolte la vita durante la detenzione, il 1 novembre del 2018 erano 53 e oggi già 55, dati molto vicini a quelli del 2012, prima che la Sentenza Torreggiani imponesse misure urgenti per migliorare le condizioni detentive.

Proprio di fine del cosiddetto “effetto Torreggiani” parla l’associazione Antigone, che già nel maggio del 2018, nel suo XIV rapporto sulle condizioni di detenzione, sottolineava quanto il ricorso al carcere sia tornato a crescere e quanto la popolazione carceraria sia nuovamente tornata sopra i livelli di capienza nominale.

Secondo i dati aggiornati al 31 ottobre, forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono 59.803 le persone detenute in Italia, contro una capienza regolamentare di 50.616 posti, una differenza di oltre 9.000 persone, in aumento rispetto a settembre, quando era pari a 8.653, e ad agosto, con i suoi 8.513 detenuti oltre i posti disponibili. Inoltre, i numeri reali del sovraffollamento sono superiori, perché nei dati ufficiali vengono comprese circa 5.000 celle oggi inagibili, un modo per ridurre la dimensione del problema a livello formale. Il sovraffollamento, quindi, non è soltanto grave, ma è anche destinato ad aumentare.

Per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la “capienza regolamentare” prevede che in una cella per più persone debbano essere assicurati almeno 9 metri quadri a disposizione per il primo detenuto, più 5 metri quadri per ciascuno degli altri. Se la cella è per quattro persone i metri quadri in tutto devono essere almeno 24. Oggi siamo molto lontani da queste regole e la conseguenza è quella di una vita tra le mura di un carcere priva delle minime condizioni di igiene e riservatezza. Sarebbe facile obiettare che chi sta in carcere in fondo se lo merita e che la cella dev’essere una cella, non una suite di un hotel a cinque stelle, eppure è proprio l’articolo 27 della Costituzione italiana a ricordare lo scopo della detenzione: «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

I suicidi in carcere sono il più evidente sintomo del fatto che la situazione sia critica e costituiscono non solo un indicatore, ma un necessario spunto di riflessione. Perché un detenuto, ovvero una persona affidata allo Stato per un percorso che è certamente punitivo, ma che ha lo scopo ultimo del reinserimento sociale, arriva al punto di togliersi la vita? Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà, spiega che «all’inizio dell’anno i suicidi e gli atti di autolesionismo erano spesso collegati alla tipologia di reato, per esempio reati di violenza, violenza sessuale, violenza su minori, che possiamo definire in qualche modo “infamanti” e che quindi possono determinare per la persona anche un momento di grave difficoltà rispetto alle relazioni, magari con la propria famiglia». Tuttavia, la situazione sembra essersi evoluta, o involuta. «I suicidi più recenti – prosegue Palma – sono molto spesso persone al primo arresto, che erano entrate da poco, che in qualche modo forse sarebbe stato giusto accogliere in un modo un po’ diverso. Un tempo le sezioni dedicate ai cosiddetti “nuovi giunti” erano sezioni su cui era forte l’attenzione di tipo psicologico, perché il carcere è sempre un trauma. Oggi però è più l’aspetto burocratico che non l’aspetto psicologico a creare anomalie: a volte i “nuovi giunti” finiscono in sezioni di transito dove magari la persona è da sola, cosa che invece proprio una direttiva che era stata fatta due anni fa per contenere il fenomeno dei suicidi aveva detto di evitare. C’è un fattore di forte debolezza nel rapporto con l’istituzione: parliamo di persone giovani, persone che non hanno un curriculum detentivo molto forte e che hanno forse molto più bisogno di un impegno forte di assistenza nel primo momento dell’impatto carcerario». Sovraffollamento da un lato, isolamento dall’altro: condizioni che sono soltanto all’apparenza contraddittorie, ma che invece aiutano a dipingere un quadro critico.

A proposito della detenzione, la scorsa legislatura era stata segnata dall’attesa di importanti cambiamenti, un’attesa alimentata prima dagli Stati generali dell’esecuzione penale, un insieme di tavoli tematici sulla detenzione e le misure alternative al carcere convocato nell’estate 2015 dall’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e poi dallo schema di riforma dell’ordinamento penitenziario. Secondo Mauro Palma, questa attesa è stata «a volte anche eccessiva», perché «forse qualche voce esterna che entrava in carcere creava più aspettativa, perché anche i decreti predisposti dal precedente governo, che a mio parere erano migliori di quelli poi adottati dal governo attuale, non rispondevano pienamente a tutto questo carico di attese». Tuttavia, oggi quella stagione sembra essere conclusa: di fronte a quella che si può ritenere una nuova emergenza, anche se con tutte le caratteristiche di un fenomeno strutturale, l’attuale ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, risponde infatti con la proposta di costruire nuove strutture detentive, attaccando i governi precedenti che si erano macchiati, a suo parere, di “decreti svuotacarceri” come scorciatoie per rientrare nei parametri dettati dalle convenzioni internazionali. Da anni il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, struttura del Consiglio d’Europa, sostiene che costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non sia però la strada giusta, perché «gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria».

Quella di costruire nuove carceri non è però una proposta estemporanea, ma discende da un più ampio e diffuso clima culturale. «Oggi – ricorda il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma – è subentrato un periodo quasi di ineluttabilità: il carcere è così e continuerà a essere così. La responsabilità non è solo dell’amministrazione giudiziaria, dell’amministrazione penitenziaria, ma è anche una responsabilità esterna. Sono molto forti attualmente le voci che chiedono più carcere e che, anche in programmi di grande pubblico televisivo, trattano per esempio le misure alternative come se fossero delle modalità per rendere meno efficace la pena. Sento frasi sul “marcire in carcere”, sul “buttare via la chiave”: è un linguaggio che costruisce una cultura della paura, una cultura che non centra la propria attenzione sul fatto che la maggiore sicurezza è data dalla capacità di recuperare delle persone, non di emarginarle».

Va detto che sarebbe possibile ridurre il sovraffollamento sin da subito, anche senza indulti o amnistie, oggi politicamente improponibili. Attualmente, infatti, sono 21.000 le persone in carcere che hanno una pena complessiva inferiore ai tre anni oppure che hanno un residuo di pena inferiore ai tre anni: per questi detenuti sarebbe formalmente possibile accedere alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale. Eppure questo spesso non avviene. «Molto spesso – chiarisce Mauro Palma – non succede perché, giustamente direi, il magistrato di sorveglianza non lo dà perché è davanti a persone connotate da una tale minorità sociale che magari fuori non hanno una casa, un posto dove stare, allora il carcere mi diventa un ricettacolo di tanti drammi che pongono quesiti anche al territorio esterno. In parte però non lo hanno perché non hanno per esempio una difesa che li sorregga, che inoltri la richiesta, che faccia capire ai detenuti di avere tale possibilità. Ecco, riflettiamo sul fatto che all’interno degli attuali 60.000 detenuti un terzo si trova in questa situazione: è la fotografia di altre contraddizioni che poi arrivano al carcere come momento terminale. Se non riflettiamo che lì bisognerebbe intervenire in altro modo, forse stiamo dando al carcere una funzione totalmente diversa, lo stiamo rendendo un ricettacolo della disperazione. E la disperazione porta anche a gesti estremi».

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