Una fatica da compiere nella certezza dell'aiuto del Signore
31 agosto 2018
La missione della chiesa nel discorso di chiusura sinodo del moderatore della Tavola valdese
Un forte richiamo alla libertà ha caratterizzato il discorso finale del moderatore della Tavola valdese Eugenio Bernardini, nell’ultimo giorno del Sinodo delle chiese valdesi e metodiste e nel solco delle celebrazioni che per tutto il 2017 avevano ricordato i 500 anni della Riforma. «La Riforma – ha detto – è stata la grande scoperta della libertà del cristiano». E questa libertà è «libertà prima di tutto dai “guardiani del sabato”, perché “Il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato” (Mc. 2, 27)», ma anche libertà nei confronti del potere temporale». Un potere, «che la chiesa non deve esercitare ma al quale ha il dovere di ricordare che – per i credenti – c’è Qualcuno a cui tutti devono rendere conto e che comunque (se anche non si crede a questo Qualcuno) ci sono dei principi di giustizia che nessuno si può permettere di calpestare, neppure chi governa le nazioni». Ciò «Vale per tutte le chiese, ma particolarmente per noi valdesi e metodisti che abbiamo voluto l’Italia unita, nell’800; che abbiamo voluto l’Italia democratica in cui i diritti, specie dei più deboli, siano protetti, e i doveri siano uguali per tutti: se muoiono i diritti, subito dopo muoiono le persone».
Ecco dunque che ritorniamo all’inizio di questa sessione sinodale, che nel giorno dell’apertura si era concentrata, nel culto, nella preghiera e nella colletta, sulle due emergenze dei migranti sulla nave «Diciotti» e degli sfollati del ponte di Genova. Di fronte ai drammi delle persone esposte, non si può pensare che esistano delle «priorità in base alla nazionalità, l’etnia, l’appartenenza identitaria; l’unica priorità che avvertiamo è la priorità in base al bisogno, priorità per chi bussa alla nostra porta. Chiunque egli o ella sia». «Il prossimo non ce lo scegliamo noi». Nella parabola del buon samaritano, questa è infatti la risposta di Gesù a chi gli chiede: chi è il mio prossimo?: «il prossimo non è definibile da una tabella restrittiva: lo incontri sulla tua strada, anche quando meno te l’aspetti». Inoltre «potrà capitare a te di essere “il prossimo bisognoso di aiuto” e di essere aiutato, magari da quello che oggi escludi (il samaritano della parabola, il nigeriano, eritreo, siriano di oggi)». «A chi sostiene priorità nella solidarietà – ha proseguito Bernardini – dobbiamo ricordare che, da cristiani, non vogliamo stabilire in anticipo chi sia i nostro prossimo».
Libertà, dunque, e accoglienza hanno percorso tutto il Sinodo: c’era stato il Manifesto per l’accoglienza della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), il comunicato della Diaconia valdese sulla nave «Diciotti», la «buona teologia politica protestante» (che era innanzitutto una predicazione) nel sermone del culto di apertura. Il Sinodo ha ricevuto, poi, il messaggio del papa e il suo appello alla difesa della dignità dei più deboli; e nelle stesse giornate una dichiarazione comune del moderatore della Tavola valdese e del presidente della Chiesa evangelica tedesca dell’Hessen-Nassau, Volker Jung, in cui si dice fra l’altro «L’Europa perde la sua anima quando valori come il rispetto per la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo stato di diritto e la difesa dei diritti umani sono sempre più messi in discussione». E ancora: «Nel cinquantesimo anniversario dell’assassinio del pastore battista Martin Luther King la Diaconia esprime sofferenza e preoccupazione per il crescente clima di chiusura, razzismo e discriminazione presente nel nostro Paese», esordisce la dichiarazione della Diaconia valdese dal titolo Pari dignità, senza distinzioni sull’attuale situazione sociale e politica. Il Sinodo si è ancora espresso con parole di inclusione e di accoglienza verso le persone «diverse» (migranti, stranieri, detenuti, Rom, Sinti e Camminanti, persone Lgbt, e tutte e tutti coloro che sono stigmatizzati sulla base del ceto sociale e della salute psico-fisica) in un clima di crisi economica, finanziaria e culturale che è diventato, anziché terreno fertile di solidarietà, un terreno inquinato da intolleranza e discorsi d’odio.
I discorsi sono fatti di parole, e questa nostra società, e in particolare la politica, sono propense a un uso sconsiderato delle parole. Prendendo spunto dai romanzi di Carlo Levi (in particolare proprio Le parole sono pietre, 1955), il moderatore ha ricordato Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale, «un contadino ribelle assassinato dalla mafia perché fondatore, a Sciara (Palermo), nel 1951, della sezione del Partito socialista e della Camera del lavoro». Di lei, che in tribunale sfida Cosa nostra, Levi scrive: «Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre». «Le parole sono pietre, non passano invano, restano, ma attenzione – prosegue Bernardini –. Da un lato, possono colpire perché svelano, denunciano ciò che si vuole tenere nascosto, come nel caso di Francesca Serio» – e a chi è reticente «egli [Gesù] rispose: “Vi dico che se costoro (i discepoli) tacciono, le pietre grideranno” (Luca 19, 40)». Ma poi, all’opposto, le parole «possono colpire perché vengono lanciate per nascondere ciò che rischia di essere svelato. E così si creano ad arte capri espiatori e si propagandano giudizi sommari: “Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro!” (Isaia 5, 20); “Io vi dico che di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato” (Matteo 12, 36-37)».
Così per noi «le parole della chiesa, devono essere e restare espressione dell’evangelo di grazia e liberazione di Cristo, espressione di un cultura capace di includere, proteggere, promuovere e integrare soprattutto chi è più esposto, umiliato, calpestato. Chiunque esso o ella sia».
Certo, le chiese, tutte le chiese, manifestano segnali di fragilità: nei loro numeri (il Sinodo è stato reso attento a questo fenomeno complesso dalla ricerca sociologica realizzata dal Centro studi Confronti e con lo strumento del bilancio sociale); nella consapevolezza di sé; nel disinteresse da parte della società e della cultura contemporanee. Ma «questo è il nostro approccio protestante: realismo da una parte, volontà di affrontare la situazione, ma, d’altra, anche speranza di poter invertire la tendenza della “stabile decrescita” (non solo numerica ma anche spirituale, di cui ci sono segnali evidenti). Noi sappiamo però che “Se il SIGNORE non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori; se il SIGNORE non protegge la città, invano vegliano le guardie (Salmo 127, 1)». Con questa certezza, accettiamo la fatica di tirare avanti: «la nostra fatica è vana senza l’aiuto del Signore, ma la nostra “fatica” nella missione (Rom. 16, 12; I Tim. 5, 17) ci deve essere».
Così il Sinodo si è chiuso nello stesso segno in cui era cominciato, la Parola biblica, la teologia e il servizio. In questo grande esercizio di democrazia e di partecipazione, che viene avvertita come tale dai nostri concittadini e concittadine, si pongono le basi per il lavoro di un nuovo anno: «grazie al servizio che tante sorelle e tanti fratelli continuano a donare alla missione della nostra Chiesa e per il sostegno e la comprensione che ricevono dalle loro famiglie: (...) un miracolo con cui il Signore ci benedice».
Il testo intero del discorso è disponibile qui.