Il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah
13 dicembre 2017
A Ferrara, il nuovo «polo culturale» propone mille anni di presenza ebraica in Italia attraverso una mostra curata da Daniele Jalla, Anna Foa e Giancarlo Lacerenza
È stato inaugurato oggi a Ferrara il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah (Meis). Un polo culturale sull’ebraismo nato per promuovere la storia della presenza ebraica in Italia che sorge nel grande edificio restaurato di Via Piangipane, nel centro storico, e che fino al 1992 ospitava le carceri cittadine, luogo di reclusione ed esclusione per eccellenza, e che ora torna a vivere come spazio aperto e inclusivo.
L’idea pionieristica di far sorgere un museo dell’ebraismo nella città d’arte emiliana fu dello scrittore Alain Elkann e del critico d’arte Vittorio Sgarbi con il sostegno dell’allora deputato Dario Franceschini, oggi ministro dei Beni e delle Attività Culturali. La legge istitutiva del 2003 fu approvata dal Parlamento italiano con voto unanime.
«La vicenda degli ebrei italiani – ricorda a Riforma.it il professor Daniele Jalla, artefice della realizzazione del museo e della mostra inaugurale – è parte integrante della storia d’Italia; una realtà attualissima che racconta la convivenza tra culture diverse e i rapporti che ancora oggi intercorrono tra le identità maggioritarie e quelle minoritarie».
Sarà infatti una mostra, l’evento d’apertura ufficiale previsto per domani 14 dicembre.
L’iniziativa è stata curata da Anna Foa, Giancarlo Lacerenza e da Jalla e s’intitola «Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni».
Un percorso per presentare al pubblico «le millenaria tappe» dalla popolazione ebraica.
«Il visitatore, grazie ad uno spettacolo multimediale – ricorda Jalla – potrà muoversi nello spazio e nel tempo e guardare ciò che lo circonda «Con gli occhi degli ebrei italiani».
Il progetto indaga in tono divulgativo il ruolo dei pregiudizi, l’origine della discriminazione, il controverso legame con la chiesa cattolica, i grandi spostamenti del popolo ebraico, il significato del ghetto, la partecipazione degli ebrei italiani a momenti cruciali della vita nazionale, le pagine di convivenza felice ed anche quelle più drammatiche.
«La mostra – prosegue Jalla –, di fatto, costituisce il primo segmento del percorso permanente del museo. Un modo originale per comunicare l’unicità della storia dell’ebraismo italiano descrivendo, per la prima volta e con ampiezza, come e quanto la presenza ebraica si sia formata e sviluppata nella Penisola dall’età romana (II sec. a.e.v.) al Medioevo (X sec. d.e.v..) e come gli ebrei d’Italia abbiano costruito la propria peculiare identità anche rispetto ad altri luoghi della diaspora, arrivando al XII secolo. Una mostra, concepita e realizzata per presentare la storia in modo nuovo, proprio perché pone esplicitamente al centro non le cose, ma le persone».
Le domande alle quali la mostra intende rispondere concentrandosi sui primi mille anni di presenza ebraica nella penisola italiana «indagano diversi aspetti – prosegue Jalla –: da dove sono venuti? Quando? Perché? Una volta giunti in Italia, dove hanno scelto di restare? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici. Cos’ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a quello di altri paesi della Diaspora? Le aree di provenienza e la dispersione del popolo ebraico sono state individuate attraverso grandi sezioni – rileva –, ripercorrendo le rotte della diaspora e l’esilio verso il Mediterraneo occidentale dopo la distruzione del Tempio e documentando la permanenza a Roma e nel Sud-Italia attraverso la migrazione, la schiavitù, l’integrazione e l’intolleranza religiosa in rapporto sia al mondo pagano che quello cristiano. Poi – spiega ancora Jalla –, con la fioritura dell’Alto Medioevo e passando attraverso il clima politico segnato dalle dominazioni: longobarda, bizantina e musulmana e il precisarsi di una cultura ebraica italiana, anche al Nord. Memorie di crociate, eccidi, conversioni forzate che hanno segnato le comunità ebraiche».
Il museo contiene duecento oggetti, molti preziosi e rari, fra i quali: venti manoscritti, sette incunaboli e cinquecentine, diciotto documenti medievali provenienti in gran parte dalla Genizah del Cairo (un significativo archivio dell’ebraismo medievale riscoperto nella capitale egiziana), quarantanove epigrafi di età romana e medievale e centoventuno tra anelli, sigilli, monete, lucerne, amuleti, poco noti o mai esposti prima, prestati da musei italiani e stranieri di primo piano.
Un viaggio visivo e letterario che ci conduce anche nella Roma imperiale dove «gli Ebrei – dice ancora Jalla –, minoranza fra le minoranze, vivono senza urti drammatici nella società pagana del loro tempo, con la quale hanno continui e quotidiani scambi. Diventano cives romani, al pari degli altri, anche se mantengono comunque una propria, distinta identità. Sono integrati, non assimilati.
Passano i secoli e, in una società sempre più cristianizzata,
per gli Ebrei inizia una nuova condizione, diversa da quella riservata a eretici e infedeli, perseguitati o eliminati.
La loro esistenza è ammessa, ma a condizione che essi accettino e subiscano di vivere in uno stato d’inferiorità codificata».
Una scelta che fu ben precisa, quella dell’ammissione delle comunità ebraiche, puntualizza Anna Foa nel Catalogo della mostra «e che la Chiesa non fa per una necessità economica ma teologica: gli ebrei erano necessari; lo aveva spiegato Agostino, al compimento dei tempi. La loro presenza rappresenta lo specchio rovesciato del mondo cristiano, ne raffigura la supremazia, ne afferma la verità di fronte all’errore, ne è testimone».
La mostra, ricorda infine il professor Jalla, termina con la vivida immagine delle comunità ebraiche incontrate in Italia dall’ebreo navarrese Beniamino da Tudela, nel suo viaggio a Oriente tra il 1153 e il 1179 «è nuovamente un incontro con persone reali, in questo caso i vertici delle comunità; la conferma di una presenza integrata e distinta. Senza essere maestra di nulla, la storia – una mostra o un museo che ce ne parla – prende senso se ci aiuta a porci delle domande. Le risposte? A ciascuno trovare le sue».