«Abbiamo a bordo la salma di un bimbo di 3-4 anni, non avendo però la cella frigorifera stiamo spingendo per sbarcare il prima possibile». Gennaro Giudetti parla con la voce di chi ha dormito poco e male, quella di chi sente che gli sforzi fatti non sono mai sufficienti. Il volontario si trova a bordo della nave Sea-Watch 3 dell’omonima organizzazione non governativa tedesca che questa mattina è sbarcata al porto di Pozzallo con 59 naufraghi salvati e questo bambino, che invece non ce l’ha fatta.
Nel giorno in cui a Roma si è firmato il nuovo protocollo per i Corridoi umanitari, che raddoppiano e rappresentano sempre di più un dito puntato verso una migrazione sicura e dignitosa, il Mediterraneo ci restituisce le storie di chi rischia la morte in mare per sfuggire a quella sulla terraferma. Lunedì pomeriggio la Sea-Watch 3 è stata coinvolta in un episodio che aiuta a capire quanto le acque del Mediterraneo siano agitate, nonostante la diminuzione numerica degli sbarchi. Da quando ad aprile si è aperta la campagna contro le organizzazioni non governative impegnate nei salvataggi sono cambiate molte cose e soprattutto si è deciso di investire con forza sulla guardia costiera libica, eppure il risultato non sembra essere molto differente: in mare si continua a morire.
Che cosa è successo?
«Ci ha chiamato l’Imrcc (Italian Maritime Rescue Coordination Centre), che è il dipartimento della Guardia Costiera che da Roma gestisce tutti i salvataggi nel Mar Mediterraneo e ci ha detto di dirigerci verso nord, dove si trovava un gommone pieno di migranti che era nelle nostre vicinanze insieme alla marina militare francese che era in zona. I francesi ci hanno chiamato per dirci di iniziare il salvataggio, offrendosi comunque di aiutarci in caso di bisogno, quindi ci siamo diretti verso il gommone. Durante il tragitto avevamo già trovato dei morti in acqua, perché molti di loro non sanno nuotare e quindi affogano rapidamente. Tuttavia non avevamo tempo per fermarci perché c’era tanta gente che chiedeva aiuto, quindi non abbiamo posto attenzione ai morti che stavano galleggiando, ma ci siamo diretti verso quelli che chiedevano soccorso in mare».
Eppure a un certo punto vi siete dovuti fermare. Che cosa avete visto?
«Purtroppo nel tragitto ho trovato un bimbo morto, che avrà avuto tre o quattro anni, e lì chiaramente non ce l’ho fatta, perché era troppo piccolo e lì vicino c’era la madre che ancora piangeva e gridava aiuto, quindi ho recuperato il cadavere del piccolino e abbiamo preso a bordo la mamma. È stato davvero straziante e pesante: con questa scena penso, per me, che si sia toccato il fondo dell’umanità. Questo bambino è un altro Alan Kurdi, quel bimbo siriano trovato sulle coste turche. Ecco, cerco sempre di dare un nome a queste persone, perché altrimenti riportiamo solo numeri, 30.000 o 40.000 morti poco cambia, senza riuscire a smuovere la nostra coscienza. Cercare di dare dei nomi e dei volti a delle persone fa sì che la cosa inizi a farci più male, così possiamo provare a fare qualcosa di più per la giustizia».
Che cosa è successo quando siete arrivati al punto che vi era stato segnalato?
«Ci siamo diretti verso il gommone che stava affondando e abbiamo visto che era legato alla nave della Guardia Costiera libica, il problema è che intorno al gommone c’era un sacco di gente che chiedeva aiuto, ma i libici non salvavano tutti, bensì soltanto quelli che erano attaccati alla loro nave. Quelli intorno, insomma, stavano annegando, quindi ci siamo avvicinati il più possibile alla nave per intervenire. Ecco, al nostro arrivo i libici hanno iniziato a urlarci contro e a minacciarci e a un certo punto, non ci crederete, hanno iniziato a lanciare delle patate contro il nostro gommone come segno di disapprovazione. Comunque, abbiamo salvato tutte le persone che stavano affogando lì vicino e ci siamo allontanati per ridurre la tensione».
Qui in qualche modo comincia un’altra storia: che cosa avete visto?
«Quando ci siamo allontanati abbiamo visto che sulla nave libica i migranti che erano a bordo hanno iniziato a gridare e a chiedere aiuto, perché non volevano rimanere su quella nave, visto che sapevano che stavano tornando in Libia, cioè proprio il posto da cui scappavano. Allora i marinai libici per calmarli e immobilizzarli hanno usato le grosse funi che servono alle navi per attraccare, e dei bastoni e delle mazze che avevano a bordo. Hanno iniziato a picchiare le persone e a prenderle a calci per farle sedere e calmare. È stata una scena davvero pesante.
Il momento peggiore però è arrivato poco dopo, quando ci stavamo allontanando perché ormai non potevamo più fare molto. Un migrante dalla nave della guardia costiera libica si è accorto che sul nostro gommone c’era sua moglie e quindi in preda al panico, nonostante fosse tenuto fermo, si è liberato da 3-4 uomini ed è riuscito a saltare in acqua dalla nave per cercare di raggiungerci.
Il problema però è che non sapeva nuotare, quindi arrivato in acqua si è attaccato alla corda della nave della Guardia Costiera libica, proprio quella corda che usano i migranti per salire a bordo della nave. È rimasto attaccato lì, abbiamo cercato di avvicinarci per recuperarlo perché sarebbe morto di sicuro, ma nell’avvicinarci la Guardia Costiera libica ha accelerato in direzione di Tripoli e non si è più fermata. Noi purtroppo eravamo molto lenti, avevamo molte persone a bordo, quindi abbiamo perso il contatto con la nave e con quest’uomo sulla corda che non sappiamo che fine abbia fatto.
Anche la moglie era disperata perché ha visto suo marito trascinato per la corda in acqua chissà per quanti chilometri. È stato straziante e da italiano mi sono veramente vergognato. La colpa è un po’ di tutti, è inutile scaricare il barile su altre persone: ognuno di noi ha una piccola colpa su quanto sta succedendo».
Spostandoci su un piano politico, il nostro governo ha fornito formazione, mezzi e un mandato alla marina libica proprio per compiere questo genere di interventi, che qualcuno ha definito “respingimenti per procura”. Da operatori in acqua come si vive questa trasformazione?
«Sono molto sincero: ho visto solo un atteggiamento violento da parte della Guardia Costiera libica, che mi fa pensare che tutti questi soldi siano uno spreco. I libici hanno salvato solo chi era attaccato alla nave, chi invece era nelle acque lì intorno no, si sono limitati a indicarli da lontano, ma siamo stati noi a recuperarli perché loro, per esempio, non scendono in acqua. Sono risorse sprecate in modo superficiale, perché non ho visto né professionalità né competenza, perlomeno in acqua. Forse a bordo, negli uffici ce l’avranno, ma in acqua per niente. Noi italiani dobbiamo rispondere di quanto succede qui.
La Guardia costiera libica ha emesso un comunicato dicendo che il problema è stato causato proprio dalla nave di Sea Watch, che ha ostacolato le loro operazioni di salvataggio. Come si commenta questa affermazione?
«Ero presente, quindi posso dirlo: questa storia è una scusa, la notizia è molto diversa e lo grideremo davanti a tutti. Non è giusto che passi la versione per cui i militari libici sono sfortunati e le Ong sono il problema. Questa storia deve finire, perché è diversa».
Quanto accaduto lunedì cambia la posizione di Sea Watch rispetto alle proprie azioni in mare?
«No, anzi: è un dovere morale ancora maggiore non lasciare questa gente da sola. È davvero importante non lasciare che queste persone muoiano da sole in mare. Noi possiamo farlo solo a turno perché siamo dei volontari, però lo facciamo con il cuore con molto piacere. Credo che sia nostro dovere dare una risposta come occidentali, come persone nate, purtroppo o per fortuna, dalla parte giusta del mondo. Se io voglio viaggiare ho un passaporto e posso fare un visto, loro devono rischiare la vita, e la storia di qeusto bambino, che si è interrotta a quattro anni solo perché il destino gli è stato contrario è esemplare. Contininuiamo a lottare con le nostre motivazione per dare un po’ di dignità a questo Mare Mediterraneo che è tanto bello per noi ma che è tanto cattivo per altri».