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Autonomia, dipende da come si racconta

Il Veneto a due settimane dal referendum parallelo a quello della Lombardia

Un risultato atteso, quello del referendum consultivo per l’autonomia che si è tenuto in Veneto il 22 ottobre. Unica incognita, la possibilità di raggiungere il quorum, che poi è arrivato abbondantemente. I giorni successivi al voto sono stati densi di commenti, spiegazioni, distinguo, prese di distanza o inaspettate dichiarazioni di vicinanza. Ci sono stati giuristi e politologi che hanno lungamente discusso sul significato di questo voto (e di quello lombardo).

A distanza di un paio di settimane, il significato molto più simbolico che pratico della consultazione appare ancora più chiaro. Innegabile, ricordarlo ormai suona banale e ripetitivo, che si sia votato sognando un agognato, immediato e consistente aumento delle risorse a disposizione dei cittadini della Regione (con cifre precise, ma relative a calcoli che partono da premesse non proprio corrette, visto che anche le possibili risorse per gestire l’autonomia sono materia di trattativa). Si è poi votata una «narrazione» dell’autonomia, più che un percorso pratico, fatto di indicazioni e procedure; e si è votata pure una visione del mondo che si nutre di miti e suggestioni, più che di analisi dei fatti e delle circostanze. Attribuendo alla parola «autonomia» una funzione convenientemente taumaturgica.

Stretti tra una campagna elettorale e l’altra, probabilmente non è un caso che la maggior parte dei partiti si sia schierato per il sì: accanto alla maggioranza di centro-destra a guida leghista che governa la Regione, si è schierato anche il Partito democratico, pur tra mal di pancia, distinguo e prese di distanza. Per il sì l’associazione dei sindaci, una pare dei sindacati, i vescovi.

Con una certa malizia, si può pensare che tutti cerchino di cavalcare l’onda di una società sempre più liquida e insofferente nei confronti della politica che governa; una società che usa ogni consultazione per farsi sentire; una società non del tutto omogenea e facile da etichettare: alcune aree urbane e il Polesine non hanno raggiunto il quorum, e qualcuno vi ha voluto leggere il disincanto provocato da una crisi economica non ancora superata. D’altro canto, nella provincia di Vicenza c’è stato il maggior numero di votanti, e qualcuno vi ha letto la richiesta di un’autonomia che sia solo il primo passo verso l’indipendenza, nella convinzione che questa farà gestire in modo più efficace anche disastri come il fallimento delle ex banche popolari. Guidate nel baratro da veneti doc con l’aiuto della politica locale, ma questo si tende a trascurarlo.

Costituita ora la «Consulta per l’autonomia», e iniziato l’iter dei vari provvedimenti che il Consiglio regionale dovrà votare per cominciare la trattativa con il Governo, di fatto resta la sensazione che continui a esserci una certa confusione su quel che si è votato. Lo stesso presidente Zaia non aiuta, quando con grande disinvoltura associa la richiesta di forme di autonomia a quella futura di uno statuto speciale. La Costituzione tiene le due cose ben separate, molti però in Veneto ormai quasi le identificano. Alcuni intellettuali hanno ragionevolmente richiamato riflessioni su possibili architetture istituzionali più adatte ad affrontare il nostro tempo, con una rilettura delle forme di autonomia in chiave non solo territoriale.

Ma nella «narrazione» attuale non c’è traccia: si parla delle quasi magiche «23 attribuzioni» che verranno chieste. Si parla delle future abbondanti risorse. Ci si immagina un sistema scolastico regionale, una polizia regionale. Difficile dire che cosa si otterrà e quale convenienza ne ricaverà il Veneto: comunque vada, la cosa importante sarà come sempre «raccontarla bene».

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