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Il testo biblico può essere tradotto, interpretato, oggetto dei più svariati studi esegetici ma nulla mi svia dalla convinzione che esso vada anzitutto accettato come esso è, una parola vivente che ci aiuta a leggere il mondo.

C’è una bella citazione di Predrag Matvejevic, grande scrittore croato, che in un suo libro (L’altra Venezia) dice che talvolta si cita «anche per uscire dalla solitudine, per essere accompagnato, sulla via d’incertezza da una voce vicina o confortante». Per me la Bibbia resta la madre di tutte le citazioni, incomparabile nella sua capacità di esprimere la vita in tutta la sua grazia e brutalità. E l’alfabeto dell’esistenza che emana da quel testo è sempre indifeso, anche quando ti prende alla gola per come narra le desolazioni ma anche le speranze e le passioni dell’animo umano.

Non rifiuto lo studio e l’indagine critica di quel testo, esso serve per parlare rettamente senza farsi prendere dallo spontaneismo e da una illusoria libertà totale. Ma l’indagine critica da sola, senza il lavoro sulla e con la propria sensibilità, in una parola senza il lavoro su di sé, anzi senza l’accettazione della Parola che si adagia su di me, lo studio rimane vano, come un «rame risonante o uno squillante cembalo» (I Cor. 13, 1), disincarnato e fine a se stesso; elucubrazioni prive di anima e anche di corpo. Perché quella Parola guarda in faccia la vita: parla della nostra esistenza e alla nostra esistenza.

Un Verbo che si fa carne significa che si fa anche sangue, lacrime, sudore, neuroni e le nostre parole poco possono di fronte a questo mistero. Alla parola biblica, al suo potere di dire l’amore e la violenza, l’incanto e la disperazione, l’altezza e la bassezza cui possono giungere le umane creature, non possiamo che accostarci con fede e umiltà. Come facessimo un passo indietro, permettendo a quella Parola di raggiungerci con la sua voce amorevole e insondabile. Ascoltandola con stupore e gratitudine rinnovata, per quel di più di senso che ogni volta, inaspettatamente ci viene da lei donato.