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Il pastore valdese Paolo Ribet, intervenendo in un seminario di formazione, ha sintetizzato lo specifico del ministero pastorale nell’espressione: «esserci». Dal mio punto di vista niente di più condivisibile, perché la vocazione al servizio cristiano dell’accompagnamento è nata in me nella sala di attesa del reparto di oncologia di un ospedale romano. Un medico si è avvicinato a una signora non giovanissima per avvisarla, in maniera delicata, che l’ultimo ciclo di chemioterapia somministrata al figlio malato, non aveva dato i risultati sperati. «Devo chiamare mia figlia – ha risposto la donna – perché io mi sento persa in questo mare sconfinato».

Il mare sconfinato era l’angoscia di cui è colma la dimensione della perdita; l’angoscia dell’oscillare sull’abisso della morte che invade l’anima devastandola. Ed è successo che di fronte a quello smarrimento assoluto, provocato da un dolore che cancella l’orizzonte perché non è più previsto un domani, (per la donna riguardo la sua relazione con il figlio, per il figlio riguardo la propria vita) ho sentito un fortissimo desiderio di «esserci» per entrambi. Una vocazione nata sul campo? Non saprei; certamente l’esperienza personale determina in qualche modo la forma del nostro ministero. Fin dall’inizio, il ministero pastorale al quale mi sono sentita chiamata ha rivelato chiaramente che, nel mio caso, l’ambito di servizio privilegiato sarebbe stata la cura d’anime. \Quel servizio, tra i servizi pastorali, che il pastore Giorgio Girardet ha definito il «ministero della consolazione e sostegno» (Appunti di Teologia pastorale, Torino, Claudiana, 2000, p. 65).

Nelle filosofie orientali il dolore è considerato un errore dovuto a una cattiva postura nell’esistenza. Se si impara come riposizionarsi all’interno di essa, l’errore svanisce. Nel cristianesimo il dolore è parte reale, anzi cruciale della dimensione umana. Ci si può, e lo si fa, interrogare sul perché della sofferenza ma non la si può eludere. Ed è proprio nei momenti in cui ci si interroga con disperazione sul perché del patire che il pastore, la pastora è chiamato o chiamata a offrire il suo sostegno umano e spirituale. La sofferenza, insita nella malattia e nell’esperienza della perdita, scaraventa il senso della vita nel non-senso più distruttivo: ci si sente soli di fronte a un Male che si sta impossessando di noi recidendo tutte le relazioni con gli affetti e con Dio. «Che cosa ho fatto per meritarmi questo?», oppure «Perché proprio a me?»: queste domande scagliate contro Dio rischiano di essere le ultime nostre parole da credenti. Questo è ciò che scatena la dimensione del soffrire: escludere Dio e morire a se stessi, al mondo prima della morte.

L’espressione «rispetto per la vita», che è risuonata nella mente di Albert Schweitzer mentre attraversava un fiume in Africa, è balenato in me come «amore spassionato per la vita» proprio quel giorno in quell’ospedale. Il fondamento della mia vocazione al ministero è dunque stata, fin da subito, «esserci» per tentare di trasmettere che accompagnati, sostenuti e consolati dall’amore di Cristo si può essere vivi fino alla morte. Vivi di quella vita che Cristo ci ha donata. Che cosa personalmente ricavo dalla mia vocazione? La gioia di aver ricevuto questa vita, e tutta la luce che essa contiene, prima della decisione di testimoniarla.

Immagine: via Flickr

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