L’operazione sequel di Blade Runner è andata in porto. Prima di entrare nel merito del bel Blade Runner 2049 (di Denis Villeneuve, USA 2017), però, è bene fare una premessa. Quando uscì il film di Ridley Scott nel 1982 e per qualche anno — io lo vidi in videocassetta quando facevo la seconda media — in molti rimanemmo abbacinati da quel che appariva come una singolarità nella storia del cinema. Un noir fantascientifico, una storia d’amore maledetta tra Rick Deckard, un detective alla Marlowe, e Rachael, una donna artificiale, definita “replicante”, che si incontrano mentre un gruppo di altri replicanti, prossimi alla morte programmata dal loro creatore cercano disperatamente e violentemente la soluzione per avere ancora un po’ di tempo da vivere.
Poi purtroppo sono venuti i director’s cut, ovvero le varianti del regista — ben sei: quando compri il dvd non sai mai quale versione stai vedendo —, che ci hanno mostrato come Deckard stesso fosse inconsapevolmente un replicante, banalizzando la storia d’amore tra lui e Rachael. E aprendo la via al sequel 35 anni dopo.
Blade Runner 2049 è davvero un bel film, il cui unico vero difetto è di essere un po’ troppo lungo. L’interpretazione del protagonista Ryan Gosling è eccezionale, così come la fotografia di Roger Deakins. Regge benissimo il confronto con il primo film, soprattutto per quanto riguarda le ambientazioni, l’aria che si respira. È un film che parte dalla fuga di Deckard e Rachael con cui si concludeva Blade Runner, per esplorare il desiderio dei replicanti di essere all’altezza dei loro creatori, degli esseri umani. Questo lo rende un film estremamente interessante da un punto di vista teologico.
I replicanti sono infatti simulacri dell’essere umano, creature perfette che per molti aspetti superano il loro creatore, ma che restano artificiali, frutto di una fabbrica e non di un atto d’amore.
Blade Runner 2049 narra il percorso dell’agente replicante K verso l’umanità, la rivendicazione di un’anima, la possibilità di avere un nome al posto di un codice di produzione. E come nome sceglierà Joe, un riferimento a Joseph K, protagonista estraniato e in balia di forze superiori e ostili del Processo di Kafka. I riferimenti teologici sono, poi, molti e difficili da individuare tutti a una prima visione. Ne cito solo uno. Si parla di alcuni replicanti morti di “Sindrome Galata”, richiamo alla lettera ai Galati, probabilmente al capitolo 4, in cui leggiamo «avete servito quelli che per natura non sono dèi» (v.8), in cui Paolo ricorda che i Galati sono stati chiamati a libertà, nati dalla donna libera che, pur sterile, ha potuto partorire per la promessa.
Cosa rende umani? Basta nascere umani per definirsi tali? O l’umanità non è piuttosto un traguardo, un punto di fuga cui aspirare? E se è così, può chi non nasce umano aspirare ad esserlo? Domande fantascientifiche, ma che oggi risuonano importanti quando si parla di ius soli e ius sanguinis, di neo-nazionalismi e di identità patrie. Come tutti i capolavori della fantascienza, che non fanno previsioni sul futuribile, ma analizzano in maniera spietata e distopica il presente, Blade Runner 2049 parla a un’Occidente che oggi guarda con eccessiva e pericolosa nostalgia al proprio passato.