Da migranti a individui con nome e cognome
24 agosto 2017
Ci sono chiese che da anni sperimentano accoglienza e integrazione con il progetto di Essere chiesa insieme. Ne parliamo con la diacona Alessandra Trotta, che ci racconta le sue esperienze
Le chiese protestanti italiani si interrogano con forza sui fenomeni migratori che coinvolgono lʼItalia e le nostre chiese. Cambiamenti importanti che impongono riflessioni sullʼaccoglienza e sulle strategie di integrazione.
Sempre più persone che frequentano i culti protestanti e condividono la fede non hanno la pelle bianca, non parlano lʼitaliano, propongono canti e musiche nuovi, raccolgono le offerte in modo differente da come siamo abituati.
Invece di erigere muri e innalzare barriere si tratta di mettere sempre più in pratica, in ogni comunità, ciò che il progetto Essere chiesa insieme propone da anni: unʼintegrazione che tenga conto delle diverse sensibilità, storie, spiritualità, attitudini, per creare spazi nuovi in cui tutti si possano riconoscere.
Si tratta, con un poʼ di buona volontà e un orecchio aperto allʼascolto, di sapere cogliere le opportunità che derivano da uno scambio di comunità, pensieri e culture.
Alessandra Trotta, diacona della chiesa metodista di Napoli Portici, racconta di essere cresciuta in una delle prime comunità che hanno sperimentato il progetto Essere chiesa insieme, quella di Palermo: «Era la fine degli anni Ottanta, i primi anni Novanta, quando ancora non cʼera la percezione che lʼItalia, fino ad allora paese di emigrazione, stava invece diventando punto di arrivo dei grandi fenomeni migratori. La comunità di Palermo provò ad avviare progetti di integrazione attraverso lʼattività diaconale. Non si trattò soltanto di aprire le porte a nuove persone, ma di accettare la trasformazione che questo incontro apriva: ciascuno doveva essere disponibile a lasciare qualcosa indietro, in un cammino comune che portava verso nuove realtà. Mettemmo in discussione anche i momenti dei nostri culti, le nostre abitudini, e queste riflessioni ci hanno aiutato sia a riscoprire il senso di quel che facciamo, sia anche a capire che può essere bello provare modi diversi. Quando le abitudini altrui diventano anche le tue,non ci sono più stranieri accolti, ma nostri fratelli in tutti i sensi».
A parole è facile parlare di accoglienza, dichiarare di essere pronti a mettersi in gioco e aprire le nostre porte. Il nostro concetto di accoglienza può essere, almeno in partenza, un poʼ paternalistico, didattico.
«Si tratta di capire su quali cose vale la pena fare un passo indietro e su quali no. Il percorso di accoglienza fa comprendere che alcuni contesti e situazioni che abbiamo la fortuna di vivere, qui in Europa, in Italia, non sono così scontati per altri. Abbiamo fatto dei percorsi, anche da credenti, sulla difesa dei diritti per tutti, sulla laicità delle istituzioni pubbliche. Su alcuni argomenti non siamo disposti a fare dei passi indietro, ma abbiamo la responsabilità di spiegarli: dobbiamo ritrovare la passione su certe conquiste importanti, per saperle comunicare a chi percorre il cammino con noi, in modo tale che diventi anche una loro conquista. Certi concetti per noi sono fondamentali, ma rischiamo di non trovare più le parole per spiegare il perché».
Il discorso sulle migrazioni viene storpiato dalla comunicazione giornalistica, mediatica?
«Diciamo che sovente servirebbe una nuova narrazione, che parta da dati oggettivi su cui ancorare le nostre percezioni dei fenomeni, che viene invece influenzata negativamente dai media e da come i fatti sono raccontati. LʼItalia non è invasa dai migranti, le percentuali sono più basse che in altre nazioni, ma quando viene posta davanti a questi dati oggettivi la gente fa fatica a voler ragionare».
Da settembre scorso Alessandra Trotta è in servizio nella chiesa metodista di Napoli Portici, dove si sperimentano progetti di accoglienza che coinvolgono tutte le chiese valdesi e metodiste dellʼarea napoletana, dedicati a persone e famiglie di richiedenti asilo molto diverse fra loro.
La diversità interna nellʼaccoglienza può diventare una difficoltà: gli immigrati entrano in contatto con realtà e persone che non avrebbero scelto e che non sempre guardano con piacere.
Chiediamo ad Alessandra quali siano le principali differenze, e quindi difficoltà, che hanno vissuto.
«Stiamo ospitando famiglie siriane giunte attraverso il progetto dei Corridoi umanitari e alcuni richiedenti asilo dellʼAfrica subsahariana. Delle tre famiglie siriane una è cristiana e due sono musulmane, e per i cristiani ha creato dei problemi pensare che una loro chiesa protestante abbia dato la stessa assistenza a famiglie musulmane.
Unʼaltra grande differenza è il modo con cui queste persone arrivano in Europa, che crea difficoltà e discussioni nel confronto di esperienze. Le famiglie che provengono dai corridoi umanitari rappresentano il modo in cui, secondo noi, tutti coloro che hanno diritto a chiedere asilo dovrebbero arrivare in Europa: per vie sicure, legali e con un programma di accoglienza che li aiuti nella pare burocratica. I ragazzi che provengono dai paesi subsahariani vivono invece la violenza e lo sfruttamento nei loro paesi, la disperazione del viaggio, la paura dellʼincognito in Italia e il senso di colpa per i parenti rimasti a casa».
Alessandra Trotta è positiva, crede fermamente nellʼimportanza di perseguire questa strada di accoglienza e di condivisione di esperienze: «Anche con piccoli passi, se abbiamo la capacità di non farci paralizzare dallo shock iniziale, dagli scandali e proviamo a sperimentare senza più guardare la nazionalità o il colore della pelle, le persone diventano individui con un nome e un cognome, e questo diverso punto di vista fa superare quelli che sembravano inizialmente problemi insormontabili».
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