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I recenti fatti di Charlottesville, in Virginia, hanno colpito per la loro violenza e per le polemiche che hanno portato con sé prima, durante e dopo, ma non devono sorprendere.

Le ragioni delle manifestazioni portate avanti dalla cosiddetta alt-right, la nuova estrema destra statunitense, sono profondamente statunitensi, ma non per questo possono essere trattate come un fenomeno locale privo di interesse. Le proteste, nate in seguito alla decisione di rimuovere una statua dedicata a Robert Lee, il generale che guidò l’esercito del Sud schiavista durante la Guerra civile americana, hanno visto molti partecipanti fare il saluto nazista e cantare slogan contro neri, stranieri ed ebrei. Nel secondo giorno di cortei, poi, uno dei partecipanti alla manifestazione dell’estrema destra ha deciso di salire a bordo della sua auto e di lanciarsi contro un corteo antirazzista, uccidendo una donna e ferendo altre 19 persone. Nonostante la violenza del gesto e le modalità della protesta, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha fatto molta fatica nel condannare i fatti di Charlottesville, facendo timidi passi verso una condanna del suprematismo bianco e poi ritrattando tutto e affermando che anche le iniziative antirazziste erano state violente e provocatorie. Si tratta di una reazione che, proprio come i fatti stessi, non deve stupire troppo, perché la destra radicale statunitense rimane un fenomeno minoritario e principalmente diffuso su Internet, ma dà l’impressione di essere in costante e rapida ascesa, soprattutto in termini di influenza sulla politica rappresentativa.

A differenza dello scenario statunitense, dove questo fenomeno è estremamente fluido e non esprime leader di portata nazionale, in Europa esistono partiti e movimenti nazionalisti più strutturati. Questo genere di violenze non si possono escludere a priori, ma secondo Michael Jagessar, segretario del Global and Intercultural Ministries della United Reformed Church del Regno Unito, «il contesto è troppo differente per pensare che nel breve periodo questi fatti si possano vedere anche qui».

In che modo si differenziano lo scenario britannico e quello statunitense?

«Innanzitutto per la diversa storia coloniale dei due Paesi. Pensate per esempio allo schiavismo nei confronti degli africani e dei nativi americani, oppure al rapporto con le comunità migranti e in generale con i non bianchi negli Stati Uniti. Nel contesto britannico si è lavorato negli anni su progetti di inclusione delle comunità di migranti, che provenivano soprattutto dagli ex territori coloniali, e oggi con coloro che provengono da ogni parte del mondo. Credo che ci potranno essere nel prossimo futuro delle rivolte nel Regno Unito, ma saranno dovute a ragioni differenti: per esempio i giovani potranno protestare per la disoccupazione, altre persone perché sentono che il sistema è contro di loro, oppure fomentate dal discorso politico che proviene dall’estrema destra, o ancora perché i politici guardano alle posizioni di estrema destra per ottenere più voti dalle classi popolari. Insomma, credo che le rivolte siano sempre possibili, ma che non appartengano al suprematismo bianco, con le sue posizioni e la sua violenza, anche se è possibile che i bianchi siano coinvolti.

Bisogna sottolineare che i movimenti di estrema destra ci sono, ma che sono principalmente preoccupati dell’islam, quindi c’è un livello crescente di islamofobia, che possiamo considerare una forma emergente di razzismo, che sta a suo modo stimolando forme di protesta, soprattutto in seno alla working class bianca e alle persone deluse che hanno paura dell’islam».

Come la Chiesa valdese, anche la United Reformed Church è profondamente impegnata nelle sfide sociali di oggi. La vostra chiesa in questi anni sta lavorando sulla questione dei rifugiati? In che modo?

«Come la Chiesa valdese, anche noi lavoriamo sulla questione dei rifugiati, ma in modo differente. Noi siamo una piccola comunità e una piccola chiesa, discendiamo dalla tradizione non conformista e la giustizia sociale è sempre stata al centro della nostra identità e del nostro operato. Il nostro approccio è quello di lavorare a livello congregazionale, insieme a un gran numero di congregazioni locali. Per esempio, nei pressi di Calais e del porto si lavora direttamente con i migranti bloccati lì. Ci sono anche congregazioni locali che ricevono e ospitano i rifugiati e che lavorano, con le autorità o per conto proprio, per fare in modo che le persone si sentano accolte, benvenute e integrate nelle comunità.

Ancora più importante è la dimensione ecumenica: noi facciamo parte di un’organizzazione chiamata Joint Public Issues Team, che comprende, oltre alla United Reformed Church, i metodisti, la Church of Scotland, i battisti e i quaccheri e lavoriamo a vari livelli, ma specialmente a quello di policy per sensibilizzare sul tema e per chiedere al governo che si impegni sulle questioni migratorie e sui problemi collegati ai migranti, ponendoli molto in alto nella propria agenda politica. Su questo piano abbiamo molte collaborazioni con i partner europei, per esempio la Ccme – Churches’ Commission for Migrants in Europe, che ha sede a Bruxelles, e la World Communion of Reformed Churches. Insomma, lavoriamo su questo tema su molti livelli differenti».

Dall’altra parte, il Regno Unito sta negoziando con l’Unione europea per uscire dall’Unione. Dalla nostra prospettiva, questo non può che significare un maggiore isolamento. Per una chiesa come la vostra, che ha una naturale inclinazione all’internazionalismo, questo può essere un elemento di preoccupazione e di difficoltà, soprattutto in relazione al tema delle migrazioni?

Credo che la decisione di uscire dall’Unione europea porti il Regno Unito verso un maggiore isolamento. Dobbiamo sottolineare che come chiesa la nostra narrativa è fondata sulla Parola all’interno di confini transnazionali, ed è per questo motivo che siamo molti delusi da questa decisione. Crediamo sia più che mai importante mantenere le nostre connessioni europee, quindi abbiamo bisogno di sviluppare nuove partnership, non solo europee, specialmente su temi come le migrazioni.

Una delle strategie che abbiamo adottato quindi è quella di dialogare concretamente con i nostri partner globali in differenti parti del mondo: per esempio, oggi lavoriamo con la National Evangelical Church of Syria and Lebanon, con cui collaboriamo per l’educazione dei rifugiati che si trovano in Libano. Abbiamo partner in Africa, in Asia, negli Stati Uniti e naturalmente in Europa, perché vogliamo ribadire che quello che conta non sono le frontiere, ma una storia e una prospettiva più ampia».

Immagine di Bob Mical, via Flickr

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