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Dopo ogni strage, dopo ogni attentato che ha segnato la storia recente dell’Europa e che incide sulla cronaca, riemerge con forza un termine, quello di paura, che, amplificato da un mercato della comunicazione che ha bisogno di parole forti, pervade anche implicitamente ogni comportamento, ogni modo di rapportarsi con il “diverso”.

Anche se uno tra gli slogan più diffusi in questi giorni che seguono l’attentato di Barcellona è “non abbiamo paura”, la sensazione è che questo non corrisponda a verità, perché più che pensare se una strage possa o meno ripetersi, ci si chiede quando e dove la si rivivrà, a chi toccherà.

Eppure, in un contesto come questo, c’è una domanda che rimane ai margini: come gestire e superare questa paura? Di fronte a questa sfida le religioni non hanno una risposta univoca, ma devono agire da protagoniste, per fare in modo che l’affermazione secondo cui la paura è portata dal diverso possa essere ribaltata.

Secondo don Cristiano Bettega, direttore dell’ufficio nazionale ecumenismo e dialogo interreligioso della Cei, «in fondo è il Vangelo che ci porta a fare questa considerazione. Quando la persona che ho di fronte, indipendentemente che la pensi come me in termini di fede, di politica, di posizione sociale o altro, viene da me classificata come “diversa”, automaticamente la allontano. Oltre alla logica dell’antropologia, di quella umana, di quella della fraternità, penso che sia proprio la logica del Vangelo che non soltanto ci chiede, ma ci impone in un certo modo un atteggiamento diverso. Credo proprio che in fondo, anche cristianamente parlando, stia proprio qui la differenza che possiamo fare. Non è per voler essere originali a tutti i costi, ma se dentro di noi abbiamo una caratteristica cristiana, quindi non specificamente cattolica, protestante o ortodossa, che vogliamo in qualche maniera testimoniare, lo dobbiamo fare in termini di una critica positiva, cioè aiutando noi stessi, le nostre chiese e la gente che incontriamo a chiederci se siamo veramente sicuri che l’opinione pubblica sia la verità».

Per molti anni le chiese, in particolare quella cattolica nell’Europa mediterranea, quella riformata nell’Europa continentale, hanno fortemente indirizzato i valori e le scelte della società. Oggi da un lato abbiamo le Chiese, direi nella loro ragionevole maggioranza, che invitano all’apertura verso lo straniero, e una società che invece sembra un po’ ripiegarsi su se stessa. Che cosa si è perso?

«Credo che quello che possiamo aver perso sia un po’ di coraggio. Forse per una sorta di visione laica secondo la quale tutti, giustamente, hanno il diritto di pensarla come vogliono, abbiamo cominciato a pensare che noi ragioniamo in un certo modo, ma che il resto, che sia la maggioranza o minoranza, che non si riconosce in una o altra chiesa, sia libero di pensarla come vuole su qualsiasi tema. Questo rimane certamente un dato di fatto, ma io per contro sono libero di dire a qualcuno che secondo me su un determinato tema si sbaglia. Ci vorrebbe più coraggio, Paolo la chiamerebbe parresìa, il coraggio di dire le cose come stanno, ma senza la pretesa e l’arroganza di ritenersi detentori della verità, ma con la sicurezza di dire che ciò che vogliamo dire non nasce da un’illusione, ma da una convinzione profonda che è di fede, di umanità e che è soprattutto una fede e un’umanità condivisa da cristiani di diverse tradizioni che poi su determinati punti per niente secondari come questo si trovano comunque d’accordo».

Senza rinnegare la secolarizzazione della società e il principio della laicità, parte integrante della società contemporanea, che cosa si potrebbe recuperare di quella capacità di dibattere sui valori?

«Credo che quella parte di messaggio si recuperi soltanto se ragioniamo e parliamo insieme, come cristiani di diverse chiese e quindi che su determinate posizioni teologiche ed etiche possono essere distanti, possono avere visioni diverse ma che su altri punti come questo possono, e forse anche devono, essere coese, in accordo. Credo che questa sia la sfida che abbiamo davanti, quella di rendere convinta la gente che incontriamo e che ci circonda che i valori del Vangelo non sono tramontati, non sono superati e non sono nemmeno naïf, non sono cose per cui possiamo passare come ingenui o illusi, quindi è necessario recuperare una visione d’insieme che c’è e forse ha bisogno di essere anche detta insieme e costruita insieme».

In questo 2017, nel quale ricorrono i 500 anni dalla Riforma protestante, abbiamo l’occasione per riflettere proprio sul tema della differenza. Quali insegnamenti ci porta la storia, soprattutto quella storia, per imparare a gestire e comprendere la sfida con il “diverso” di oggi?

«La critica, direi. Riassumendo all’estremo, Lutero e tutti i grandi riformatori, ma prima ancora Valdo, hanno sollevato delle obiezioni rispetto a quella che poteva essere un’opinione comune consolidata e di fronte alla quale forse qualcuno si trovava d’accordo e qualcun altro forse no. Hanno avuto questo coraggio, questa chiarezza, questa lucidità. Penso che il quinto centenario ci stia aiutando, perché è sicuramente un avvenimento importante per tutte le Chiese protestanti, ma grazie al cielo si è rivelato come un’occasione provvidenziale anche per la chiesa cattolica, che pur magari non si riconosce totalmente nelle posizioni di Lutero ma che oggettivamente, nel corso dei secoli, vi si è anche specchiata, le ha fatte sue, le ha rielaborate, in alcuni casi assorbite.

In altri termini: è vero che come credenti, come cristiani, siamo chiamati a inculturarci. Non viviamo in un passato nostalgico di duemila anni fa, quindi è giusto cercare di adattare il messaggio del Vangelo alla storia attuale nella quale ci troviamo, però siamo anche chiamati a essere controculturali, a saper dire ciò che stride, a sottolineare quei punti, quegli aspetti, su cui il Vangelo ha qualcosa di diverso da dire rispetto all’opinione pubblica. Ecco, credo che questo in fondo sia anche un po’ un modo per tenere vivo lo spirito della Riforma».

Tornando al tema della paura, sul banco degli imputati abbiamo, ormai almeno dall’inizio del secolo, l’Islam nelle sue differenti anime. Per contro, negli ultimi anni sono state proprio le chiese cristiane a fare pressioni, per esempio affinché i fedeli musulmani avessero diritto a degli spazi di preghiera garantiti. Possiamo considerare questa come una nuova fase, più ampia, di un dialogo esteso non solo alle chiese cristiane, ma orientata a una fede globale?

«Certamente. Questo è un po’ l’anello che congiunge da una parte l’ecumenismo e dall’altra il dialogo interreligioso. In modi magari diversi mi pare di capire che tutte le chiese cristiane abbiano il loro aspetto di dialogo, le loro iniziative. Io credo che quanto più le faremo insieme, tanto più sarà incisivo il discorso e avrà anche un futuro e una ricaduta pratica concreta. Va detto a chiare lettere che è vero, il nemico o comunque il diverso da cui stare attenti e di cui avere paura negli ultimi anni si è concretizzato nella figura del mondo islamico, ma non è tutto così. Sono perfettamente d’accordo e consapevole, ma lo sono i musulmani stessi, del fatto che gli ultimi atti di terrorismo in Europa in generale vengono da un mondo islamico, o meglio ancora islamista, radicalizzato, molto marginale, che ha però un susbstrato nella società islamica, ma non è tutto l’Islam che ragiona così. Quello che a me fa male è il fatto che anche i nostri organi di informazione molto spesso danno notizia della rabbia, della preoccupazione e della paura che il mondo occidentale, quindi di impostazione cristiana ed ebraica, ha nei confronti di questi atti di terrorismo, ma non sottolinea mai, o comunque troppo poco, peccaminosamente troppo poco, che c’è un mondo islamico che protesta, che non si trova d’accordo, che critica questi atti di terrorismo. Perché questo non lo diciamo mai? Vediamo la nostra protesta, la nostra paura, ma senza leggere quella di chi c’è dentro ancor di più, perché si sente accusato, generalizzando, di essere terrorista, quando sa di non esserlo, di non volerlo essere. Ecco, su questo secondo me bisognerebbe cercare di lavorare, per dare risalto al fatto che questa presa di posizione, di distacco, di condanna, non è soltanto nostra, è anche del mondo islamico, anche del nostro, anche di quello che vive in Italia».

Immagine di Pietro Romeo

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