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All’interno del dibattito pubblico sulle migrazioni, surriscaldato in questi mesi dalla campagna contro le organizzazioni non governative che si occupano di salvataggi in mare e dalla preoccupazione per l’instabilità dello scenario libico, rimane un cono d’ombra, un tema espulso da gran parte delle agende politiche: quello relativo alle norme nazionali che regolano il diritto di accedere e rimanere sul territorio italiano.

Anche se proviene da un’altra epoca politica, e i nomi che la identificano stanno lì a testimoniarlo, in Italia vige ancora la legge 189 del 30 luglio 2002, nota soprattutto come Bossi-Fini. Con la sua approvazione quindici anni fa, la legge ha modificato le norme già esistenti in materia di immigrazione e asilo, definite dal Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero del 1998. Più volte integrata, in particolare nel 2005 dal ministro dell’Interno Pisanu e nel 2009 dal suo omologo Maroni, conserva ancora oggi intatto il suo nucleo, che prevede alcuni punti qualificanti.

Oltre a inasprire le pene per i trafficanti di esseri umani e a introdurre l’uso delle navi della Marina Militare per contrastare il traffico di clandestini, con la Bossi-Fini venne infatti esteso il sistema delle espulsioni con accompagnamento alla frontiera, già previste in realtà dalla precedente Turco-Napolitano, ma trasformate, almeno secondo i termini scelti dal legislatore, in azioni immediate a carattere amministrativo. Inoltre, venne ampliata la platea di persone condotte nei Cpt, i centri di permanenza temporanea, istituiti nel 1998 con lo scopo di identificare e respingere le persone prive di documenti di identità validi.

Oggi, il diritto di accedere al nostro Paese è riservato a chi è già in possesso di un contratto di lavoro che gli consenta il mantenimento economico, così come quello di rimanere sul territorio italiano. Se una persona che accede con un contratto di lavoro diventa disoccupata, è costretta a ritornare nel proprio paese d’origine.

La Bossi-Fini, inoltre, ammette i respingimenti al paese di origine in acque extraterritoriali, in base ad accordi bilaterali fra l’Italia e altri paesi, come quello con la Libia di Gheddafi del gennaio 2009, che impegnano le polizie a cooperare per prevenire l’immigrazione clandestina. L’obiettivo dichiarato nel 2002 era quello di fare in modo che i barconi non potessero attraccare sul suolo italiano e che l’identificazione degli aventi diritto all’asilo politico o a prestazioni di cure mediche e assistenza avvenisse direttamente in mare. Questo aspetto è stato sin da subito uno tra i più controversi e discussi, tanto che nel 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò all’unanimità l’Italia per i respingimenti verso la Libia. Nel caso Hirsi, che riguardava 24 persone e risaliva al 2009, si considerò violato l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quello sui trattamenti inumani e degradanti e la tortura. Eppure, anche questo aspetto della legge rimane in vigore, al punto che oggi, con un governo di differente colore politico e una storia di migrazioni ormai molto diversa, i respingimenti stanno ritornando, delegati alla Marina libica e non più svolti in prima persona.

A rendere ancora più restrittiva la Bossi-Fini, fu poi nel 2009 il pacchetto sicurezza voluto dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni, con il quale venne introdotto il reato di immigrazione clandestina, che prevede un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro per lo straniero che entra illegalmente nel territorio dello stato e innesca in modo automatico, caso unico in Europa, l’azione penale.

Nell’aprile 2014 si era arrivati molto vicini all’abrogazione di questo reato e alla sua trasformazione in illecito amministrativo, ma l’esecutivo guidato da Matteo Renzi decise di fare leva sul «carattere particolarmente sensibile degli interessi coinvolti dalla fattispecie in esame» e preferì non esercitare la delega rispetto a tale contravvenzione.

Uscita intatta dall’alternanza parlamentare degli ultimi 15 anni, la legge Bossi-Fini nel frattempo è diventata una specie di sottinteso, un terreno su cui nessuno si può addentare senza trovarsi di fronte al muro alzato da quella minoranza rumorosa rappresentata dagli espliciti difensori di quel quadro normativo.

Proprio per questo, la Bossi-Fini potrebbe essere superata dal basso: la campagna Ero straniero – L’umanità che fa bene, lanciata nell’aprile del 2017 dai Radicali Italiani e oggi sostenuta da numerose realtà sociali che vanno dal cattolicesimo sociale ai sindacati, e da oltre 100 sindaci, rappresenta un cammino verso una legge di iniziativa popolare mirata a sostituire la normativa attuale e cambiare le politiche sull’immigrazione puntando, come si legge nel titolo della proposta, sull’«inclusione sociale e lavorativa dei cittadini stranieri non comunitari».

«Si tratta – spiega Giovanna Scifo, responsabile del progetto Mediterranean Hope a Scicli – di punti molto importanti. Per esempio si chiarisce il sistema dei permessi di soggiorno temporanei per motivi di lavoro, garantendo alla persona un anno di tempo in cerca di lavoro. Allo stesso modo si ragiona sulla reintroduzione degli sponsor, già previsti dalla Turco-Napolitano: si dà la possibilità di invitare una persona che si conosce, per esempio un amico africano, e di farlo rimanere a casa nostra per un anno, durante il quale può cercare un lavoro».

Ampliando lo sguardo, la proposta di legge è composta da 8 articoli che prevedono, oltre a quanto detto a proposito dei permessi temporanei, anche la regolarizzazione su base individuale degli stranieri che si trovino in situazione di soggiorno irregolare, nel caso in cui sia possibile dimostrare l’esistenza in Italia di un’attività lavorativa o di comprovati legami familiari o l’assenza di legami concreti con il paese di origine.

Inoltre, si chiede un ampliamento del sistema Sprar, per consentire un’accoglienza diffusa in modo capillare sul territorio e fatta di piccoli numeri, adatti a favorire, per esempio, l’apprendimento della lingua, la formazione professionale e l’accesso al lavoro.

Nella proposta di legge vengono poi eliminate tutte le disposizioni che richiedono, per l’accesso a molte prestazioni di sicurezza sociale, il requisito del permesso di lungo periodo, tornando al sistema originario che prevedeva la parità di trattamento nelle prestazioni per tutti gli stranieri titolari di un permesso di almeno un anno, e si spinge oltre parlando della previsione di elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative a favore degli stranieri che si trovano stabilmente in Italia da cinque anni, abbiano superato i test di lingua e possiedano uno stipendio regolare.

Di effetto immediato, invece, è un’altra delle proposte contenute nell’iniziativa popolare: l’abolizione del reato di clandestinità, questa volta attraverso un testo organico e non affidandosi alla volontà del singolo governo. In particolare, secondo Elisabetta Cammelli, membro della chiesa metodista di Bologna, che ha recentemente aderito alla campagna, questo aspetto della proposta è di particolare urgenza, perché il reato di clandestinità «crea una fascia di illegalità che fa male alle persone considerate clandestine e anche alle altre, perché quella zona di irregolarità non fa bene a nessuno. L’altro obiettivo di questa riforma è quello di permettere di raggiungere l’Italia non soltanto come rifugiati, ma anche come migranti economici: questo fa si che se una persona ha uno sponsor o un contratto di lavoro, possa arrivare in Italia senza passare dall’istituzione della richiesta d’asilo, strada fatta per altro, e per rendere giustizia alle storie di ognuno».

Con l’avvio dei lavori del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi, è partito anche il sostegno ufficiale alla proposta di legge da parte della Fcei, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia, che insieme alla chiesa metodista di Bologna ha allestito un punto di raccolta delle firme. «La comunità di Bologna – aggiunge Elisabetta Cammelli – è multietnica e conosce direttamente i problemi nella storia e nella conoscenza delle persone straniere che sono fratelli e sorelle di chiesa. Da 17 anni abbiamo una scuola di italiano, molto frequentata, con 60 insegnanti e 400 persone iscritte quest’anno, che ci ha permesso di vedere come è cambiata l’immigrazione in Italia: abbiamo toccato con mano i problemi delle persone che diventavano clandestine, abbiamo visto i loro problemi».

Guarda l'interista ad Elisabetta Cammelli

L’obiettivo è arrivare entro la fine di novembre a quota 50.000 firme, in modo da poter sottoporre la legge all’attenzione del Parlamento.

Al di là della legge, comunque, «la sfida dell’accoglienza non è facile, perché – conclude Giovanna Scifo – si incontrano culture diverse, ma anche perché i progetti si evolvono in continuazione, si incontrano persone diverse ed è fondamentale cambiare la propria testa, per emanciparci continuamente. Saper cambiare è un valore».

Immagine: via Flickr

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