Con un’operazione di realismo politico che era ormai nell’aria da alcuni mesi, il governo italiano ha deciso di riaprire una linea di credito diplomatico con il regime di Abdel Fattah al-Sisi, al potere con metodi autoritari da circa quattro anni. La crisi diplomatica aveva toccato il suo punto più intenso nell’aprile 2016, quando, in seguito agli ostacoli e depistaggi messi in piedi dall’Egitto sul caso di Giulio Regeni, il governo italiano aveva richiamato il proprio ambasciatore. La scelta, dettata dall’impossibilità di ricostruire la verità intorno al rapimento, alla tortura e all’uccisione del ricercatore italiano, era stata letta dalla famiglia Regeni e dalle organizzazioni che stanno seguendo il caso, come Amnesty Italia, come un deciso segnale di volontà politica nella direzione di ottenere una credibile ricostruzione della vicenda.
Con l’annuncio del 14 agosto, invece, il ministro degli esteri Angelino Alfano ha stabilito un’inversione di rotta che, in risposta alle critiche giunte nei mesi scorsi, è stata motivata con la posizione secondo cui il ritorno dell’ambasciatore è necessario per la ricerca della verità. Un’affermazione con cui il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, è in profondo disaccordo. «Questa mossa – spiega – non risolve nulla. Per ottenere la verità è necessario tenere sotto pressione il regime di al-Sisi, esercitare tutta la forza politica e diplomatica di cui il nostro Paese è titolare e trovare forme di iniziativa incisive, efficaci e concrete, affinché quel regime senta che la verità su Giulio Regeni è davvero una posta in gioco fondamentale. Rinunciando al richiamo dell’ambasciatore, rinunciamo alla sola arma che abbiamo utilizzato contro quello Stato dispotico. Ci troviamo, insomma, disarmati».
Il nostro Paese aveva scelto di seguire questa strada proprio per poter dialogare da una posizione di forza con il Cairo, e con questa scelta sembra ora non avere più opzioni. «Se proprio si riteneva essenziale, per ragioni geopolitiche e strategiche relative a quell’area del mondo e al ruolo che lì può giocare l’Egitto – prosegue Manconi – si poteva fare dopo, ma soltanto dopo, aver adottato altre misure, aver adottato provvedimenti che fossero tanto efficaci e tanto concreti quanto lo è stato il richiamo dell’ambasciatore. Si poteva intervenire in campi cruciali, come quello dei flussi turistici, quello dei rapporti commerciali tra Italia ed Egitto o quello degli accordi sull’immigrazione. Non è stato fatto e quindi abbiamo ceduto sull’unico strumento che avevamo, per scelta, a disposizione».
Per comprendere le ragioni più profonde di questa decisione, è necessario abbandonare il caso Regeni e guardare in modo più ampio alle dinamiche politiche che segnano da anni il Mediterraneo e più nello specifico la Libia, con il suo portato sulle migrazioni umane verso l’Italia.
Il nostro ministero degli Esteri ha rifiutato di commentare il presunto appoggio dell’Egitto alle forze di Tobruk, guidate dal generale Khalifa Haftar, ma il dualismo politico in Libia sembra pesare sui rapporti con l’Egitto molto più dell’indagine sulla morte di Regeni, che invece aveva rappresentato un motivo di tensione senza precedenti.
Il governo di Roma è stato sin dall’inizio uno dei più attivi nel sostenere il governo di Fayez al-Sarraj in Libia, insediato a Tripoli e riconosciuto dalle Nazioni Unite, ma non sono pochi i Paesi che invece hanno deciso di favorire la definitiva ascesa di Haftar, e tra questi, oltre alla Russia e ad alcune monarchie del Golfo, va necessariamente annoverato l’Egitto di al-Sisi. Oggi Haftar è sempre più decisivo, fino al punto di potersi permettere di minacciare la Guardia costiera italiana e di promettere, salvo ricorrenti dichiarazioni contraddittorie, di boicottare le iniziative italiane nei confronti delle partenze dalla Libia di gommoni e battelli con a bordo i migranti diretti verso l’Europa, spesso messi a forza sui barconi da parte di trafficanti e organizzazioni che operano proprio nell’anarchia libica.
Agli occhi dell’Italia, il presidente egiziano al-Sisi è la figura più influente sulle scelte di Haftar, e questo lo rende l’interlocutore attraverso cui passare in modo necessario per poter portare a compimento il piano sviluppato dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, che punta a ridurre le partenze e favorire il respingimento dei migranti verso Tripoli direttamente da parte della Guardia costiera libica. «Il vero problema – afferma Manconi – è che il governo non l’ha voluto dire, non ha voluto comunicare chiaramente le proprie intenzioni e le proprie necessità. Questo è un altro errore».
Sacrificando l’indagine sull’omicidio di Giulio Regeni, il governo italiano spera che al-Sisi spinga Haftar verso una posizione più defilata, magari accettando un governo di unità nazionale che non lo comprenda direttamente. Il problema è che questa non è altro che una speranza, un’ipotesi che, almeno pubblicamente, non è sostenuta dai fatti, e che di fronte a una certezza, l’uccisione del ricercatore italiano, sembra ben poco solida. Il 4 settembre il governo italiano riferirà alle Camere a proposito della decisione di normalizzare i rapporti con l’Egitto. «Ovviamente non ci sono più spazi per un ripensamento – conclude Manconi – ma al contrario c’è il tempo per applicare strategie diverse dalla semplice resa, per utilizzare le parole dei genitori di Giulio Regeni. C’è tempo e anche forza, però bisogna deciderlo. Ecco, l’Italia finora non l’ha deciso».