Si riapre la discussione sul caso Eichmann: il gerarca nazista, organizzatore scrupoloso della macchina infernale che portò alla morte un numero enorme di ebrei, destinandoli a questo o quel campo di sterminio. Sfuggito al processo di Norimberga, fu poi catturato dal servizi israeliani e processato e messo a morte in Israele. Il suo processo fu seguito dalla filosofa Hannah Arendt, che ne ricavò una serie di corrispondenze per la rivista The New Yorker, da cui scaturì il libro La banalità del male (in Italia ed. Feltrinelli): la tesi principale era che uno dei principali autori del genocidio e di quelli che furono riconosciuti come crimini verso l’umanità fosse soprattutto un operatore osservante dell’ideologia, un burocrate. Non era, questa, certo un’assoluzione morale, anzi il concetto era terrificante, ma dava aveva il merito di non considerare i capi nazisti come dei «mostri» quasi metafisici e fuori della storia. La macchina nazista si giovava proprio del grande numero di funzionari obbedienti ed efficienti: non dei geni del male, ma dei meccanismi che ubbidivano agli ordini (e li davano ai sottoposti), con indifferenza per le conseguenze. Ma il testo di Hannah Arendt risale al 1961-62: e da allora le sue categoria interpretative vengono messe al vaglio di più recenti acquisizioni di documenti (in ultimo, in uscita anche in Italia, il testo di Betti Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme).
Non bisogna stupirsene, e non credo che gli studi ulteriori sconfessino Arendt, caso mai aggiungono dettagli e nuove riflessioni, se possibile orrore a orrore. Il lavoro di scavo sulle peggiori tragedie della storia umana, infatti, non sono dati e acquisiti per sempre. Il passaggio della testimonianza è ineludibile, ma è solo il «primo momento». Un lungo momento: la testimonianza di Primo Levi è durata fino alla sua morte, incessantemente nei suoi libri ma anche in interviste, interventi pubblici e soprattutto nelle scuole. Eppure lo scrittore torinese sentì il bisogno, quattro decenni dopo Se questo è un uomo (1947), di ritornare sui medesimi argomenti, approfondendone l’interpretazione e pubblicando I sommersi e i salvati (1986). La testimonianza, per quando valorizzata da una grande capacità di scrittura, aveva il pregio del carattere diretto; l’interpretazione, come per i testi biblici, è infinita e ogni nuova acquisizione si somma alle precedenti.
La questione è importante, perché ormai quella generazione di testimoni sta scomparendo. Se fu Levi stesso a rielaborare le proprie testimonianze, il passare degli anni lo renderà prima o poi impossibile. Solleva il problema l’agenzia stampa Protestinfo, che ne parla nella sua edizione del 14 luglio: «La memoria vivente dei testimoni – scrivono Laurence Villoz e Guillaume Henchoz – sta per cancellarsi per lasciare spazio a un’altra memoria, culturale e istituzionale, sostenuta da associazioni e pubblici poteri». Ma con quali conseguenze? Risponde lo storico Dominique Dirlewenger: «Se avete assistito a una testimonianza diretta, vi rendete conto che il migliore dei film non potrà mai riprodurla. Quando un sopravvissuto rimbocca la manica per mostrare il numero che gli è stato tatuato sul braccio dalle Ss, il passato si fa vivo come incarnandosi». Ma il problema è più complesso: Nadine Fink, formatrice di insegnanti in Didattica della storia e in Educazione alla cittadinanza, avverte: «La presenza umana può essere anche un freno alla comprensione. L’emozione può prevalere. Ciò a cui bisogna puntare è un saggio dosaggio fra empatia e comprensione».
Ora, dopo che fra gli anni ‘80 e ‘90 ha fatto la sua lugubre comparsa il negazionismo, proprio la presenza dei testimoni è stato il miglior antidoto contro le tesi di chi nega la Shoah. A sua volta, chi avesse sentito la testimonianza era impegnato a riprodurla, sottolinea ancora Dirlewenger: bisognerà allora proseguire con questa sorta di «catena» di testimonianze? Per Charles, Heimberg, storico e docente di Scienze dell’educazione, «La dimensione della testimonianza non sparirà con la morte dell’ultimo dei superstiti. Abbiamo accumulato molti documenti sulla loro memoria: film e libri rendono perpetui i loro racconti. Il problema è la scomparsa di queste persone in quanto “traghettatori”. Questo ci fa ricordare che la memoria è una costruzione temporanea».
A livello scolastico si sta lavorando, nella Svizzera Romanda, ma di fatto anche in molti altri Paesi, a una sorta di testimonianza per la seconda generazione, realizzando per esempio testimonianze filmate dei sopravvissuti alla Shoah. Peraltro una settimana dopo, sempre Protestinfo, a firma degli stessi autori, affronta una questione collegata, che è quella dei «memoriali» e delle commemorazioni che si svolgono al loro interno, interpellando Brigitte Sion, studiosa della memoria della Shoah, che avverte: «C’è spesso l’idea che un memoriale sia solo un monumento: può essere una costruzione, sì, ma anche un canto, una preghiera, un testo, una data o un festival. Conta più la funzione che la sua essenza e non si tratta sempre di commemorare una tragedia, può trattarsi di un giorno felice come di una vittoria o del conseguimento dell’indipendenza». Il problema è che questi luoghi diventano anche mete turistiche e a volte i visitatori non sono preparati, come i turisti cinesi che arrivano ora in gran numero a Auschwitz. Bisogna quindi lavorare al di là del luogo stesso, per renderlo comprensibile a generazioni diverse di diverse provenienze, evitando possibilmente che a predominare sia l’attitudine del turismo mordi-e-fuggi e dei visitatori in cerca di gadget invece che di approfondimento e riflessione...