Nel dicembre del 2016 i capi di Stato e di governo dei Paesi dell’Unione europea avevano annunciato che entro il mese di giugno del 2017 si sarebbe trovato un percorso condiviso per la riforma del diritto d’asilo. Eppure, il semestre di presidenza maltese è passato senza che ci fosse nessun accordo, mentre il dibattito si è spostato sull’opportunità di far sbarcare i migranti sulle coste francesi e spagnole per “alleggerire” il carico nei confronti dell’Italia, oppure sulla volontà di dare nuove regole alle organizzazioni non governative che effettuano interventi di salvataggio nelle acque del Mediterraneo e considerate da alcuni un “fattore d’attrazione” per i migranti.
Tuttavia, secondo Gianfranco Schiavone, membro del consiglio direttivo di Asgi, associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, e presidente del Consorzio italiano di solidarietà, sarebbe fondamentale riportare l’attenzione «sulla questione delle normative europee per regolare il tema della suddivisione delle presenze dei richiedenti asilo nei vari Paesi», un tema che a cascata porterebbe a profondi cambiamenti anche negli altri regolamenti.
Le normative europee, a maggior ragione quelle che riguardano un fenomeno come quello delle migrazioni, che interessa tutti i Paesi europei, dovrebbero rispondere in modo globale al principio di solidarietà tra gli Stati, sancito dall’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Eppure integrare questo approccio nelle normative relative al diritto d’asilo non sembra una priorità. «Da molti anni – spiega Schiavone – l’Unione europea si è dotata di un regolamento, il regolamento di Dublino, di cui siamo alla terza versione. Il fatto però è che la prima versione risale al 1990, insieme agli accordi di Schengen, in un’epoca storica completamente diversa da quella attuale, in un contesto nel quale nei Paesi dell’area sud dell’Europa e in generale nei Paesi che avevano frontiere esterne la presenza dei rifugiati era sostanzialmente impercettibile, mentre la maggior parte dei rifugiati, proprio perché non c’era nessuna regolamentazione, si finivano per concentrare nei Paesi del centro e nord Europa. Quei numeri oggi fanno sorridere, ma comunque lo squilibrio, seppur nel piccolo, era evidente».
Il regolamento di Dublino, di cui nel 2013 venne pubblicata una terza versione, nasceva proprio per riequilibrare la situazione. Uno dei suoi principi, presente ancora oggi, è quello in base al quale, in caso di ingresso non regolare nell’Unione europea, la competenza dell’esame della domanda dei richiedenti asilo riguarda il primo Paese in cui il richiedente è entrato, laddove quell’ingresso è stato registrato. «Non è neanche necessario – precisa Schiavone – che presenti lì la domanda, perché può anche soltanto transitare, non intendere rimanere lì, andarsene, ma se è stato registrato la competenza si radica in quel Paese».
Lo scopo del regolamento di Dublino nei primi anni Novanta era quello di costringere i Paesi dove le persone non si fermavano e che non avevano neanche sistemi di accoglienza e di protezione, come l’Italia, a dotarsi di normative nazionali in grado di gestire i rifugiati che vengono rinviati da loro, ma sul piano concettuale ha sempre avuto grandi limiti, come quello di essere, nei fatti, basato sulla geografia. «Questo tipo di approccio non funziona più in un contesto storico come quello attuale, nel quale applicare il principio in base al quale le persone dovrebbero rimanere dove arrivano, senza neanche volerlo e saperlo, oppure addirittura vengono salvate e portate negli unici posti in cui possono essere portate, finisce per far sì che quel Paese si debba occupare dell’intera procedura d’asilo, registrando la domanda e prevedendo un’accoglienza, perché la persona rimane sul suo territorio per tutto il tempo. Soprattutto, questi Paesi sono chiamati a decidere nel merito della domanda e poi rilasciano un titolo di soggiorno che vale per circolare nell’Unione europea, ma non per vivere in altri Paesi dell’Unione».
Anche se è evidente quanto questo principio non stia più producendo risultati apprezzabili, per ora non sembrano esserci vere prospettive di cambiamento. La presidenza di turno dell’Unione europea passa ora, fino al 31 dicembre, all’Estonia, ma a pochi giorni dall’avvio del semestre è già chiaro come anche nel 2017 la riforma del regolamento di Dublino non vedrà la luce. «Abbiamo consultato quasi tutti gli Stati membri – ha dichiarato durante il passaggio di consegne Klen Jaarats, direttore per gli affari europei dell’Estonia – e abbiamo realizzato che non c’è la possibilità di chiudere la riforma di Dublino entro la fine di quest’anno».
Secondo Gianfranco Schiavone, i problemi che hanno portato a questo ulteriore rinvio della riforma non sono di ordine tecnico, ma politico. «Il regolamento oggi ha una proposta di riforma della Commissione, estremamente carente, e un’altra proposta di modifica, più profonda, sviluppata dalla relatrice della commissione Libertà e Giustizia del Parlamento europeo, l’eurodeputata svedese Cecilia Wikström. Inoltre ci sono proposte di ulteriore modifica su quest’ultimo testo, tra cui quella presentata dall’eurodeputata italiana Elly Schlein e dal gruppo dei Socialisti e Democratici».
Il Parlamento, dunque, si sta occupando della riforma del regolamento di Dublino, ma quello che manca è un accordo tra i Paesi. In particolare, il problema sembra risiedere proprio nel principio geografico, la nozione che lega la competenza al luogo d’ingresso nell’Unione. Secondo tutte le proposte presentate questo vincolo va superato in modo più o meno radicale, anche soltanto in periodi in cui scatta un livello di ingressi che si possa considerare emergenziale, ma questo punto sembra essere un ostacolo insuperabile. «Il problema grosso è che questa è davvero una priorità – spiega Schiavone – perché il regolamento Dublino è legato alla riforma di tutti gli altri aspetti del “pacchetto asilo”, quindi al regolamento procedure, al regolamento qualifiche, allo stesso regolamento accoglienza. Tutto si tiene insieme nell’insieme delle disposizioni, per cui rischiamo di avere un rinvio complessivo di tutte le discussioni e soprattutto non affrontare questo tema».
Lo stallo sembra interessare soprattutto due estremi: da un lato l’Italia contesta l’assenza di un meccanismo automatico, mentre i Paesi dell’est Europa si sono opposti in ogni modo a qualsiasi forma di redistribuzione. In particolare, sono i quattro Paesi del Gruppo di Visegrád, composto da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, a porre i veti più forti, al punto da aver presentato un ricorso contro il piano di redistribuzione dei migranti che era stato previsto nel 2015 e che finora non è mai stato attuato, se non in quote minime. «Su questo tema – conclude Schiavone – l’Europa sta affossando se stessa. Questo non è solo un tema importantissimo perché riguarda i diritti delle persone, ma ormai è un tema politico centrale, non se ne parla molto ma sostanzialmente il non funzionamento di questo sistema va al cuore della crisi dell’Europa di oggi».