Nuova condanna per l’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani, Cedu, ancora una volta sui fatti del G8 di Genova del luglio 2001. La causa fa preciso riferimento a quanto accadde nella notte tra il 21 e il 22 luglio all’interno della scuola Diaz e nella scuola Pascoli, dove i movimenti che contestavano il vertice avevano allestito il centro stampa e l’ufficio legale.
Questa sentenza segue quella del 2015, quando la Corte si era espressa sulla vicenda attraverso un diverso ricorso, condannando lo Stato italiano al pagamento di 45.000 euro di risarcimento ad Arnaldo Cestaro, uno dei feriti di quella notte. Secondo la Cedu, l’operazione condotta dal VII Nucleo antisommossa della Polizia aveva violato gli articoli 3, 6, 13 e 34 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, relativi alla tortura e alle condizioni e punizioni degradanti e inumane. Con la nuova condanna, la posizione del nostro Paese diventa ancora più pesante, perché si scende maggiormente nel dettaglio arrivando alla definizione esplicita di “tortura” e si condanna lo Stato italiano a risarcire le vittime, 29 sui 42 ricorrenti, con somme che vanno dai 45 mila ai 55 mila euro ciascuno, per un totale di circa 1,4 milioni di euro.
Nella sentenza resa nota giovedì 22 giugno, si legge che gli agenti «arrivarono sulla scena correndo e in tenuta antisommossa, indossando elmetti e portando con sé scudi e manganelli», e che «una volta dentro, fecero un uso della forza indiscriminato, sistematico e sproporzionato». Si sottolinea poi che «la Polizia non si trovava di fronte a una situazione urgente o a una minaccia imminente che rendesse impossibile pianificare un intervento adeguato al contesto e proporzionato ai potenziali pericoli». In un passaggio immediatamente successivo, il testo recita che «nonostante la presenza a Genova di funzionari di polizia esperti e di alto grado, non venne emanata nessuna specifica linea guida a proposito dell’uso della forza e non sono state date agli agenti istruzioni adeguate su questi aspetti decisivi».
La Corte considera che il trattamento a cui i ricorrenti sono stati sottoposti nella scuola Diaz-Pertini va considerato tortura, perché c’è stata una violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Inoltre, la Cedu ha osservato che la procedura adottata dall’Italia in questo caso è stata la stessa della violazione del caso Cestaro, e quindi «non c’è nessun motivo per allontanarsi da quella sentenza e da quegli assunti». A rendere il tutto più preoccupante per il nostro Paese è però il passaggio sull’«inadeguatezza del sistema normativo italiano nel punire e prevenire gli atti di tortura». L’assenza di un reato specifico nel nostro ordinamento, infatti, ha fatto sì che i responsabili dei fatti di Genova siano sempre stati perseguiti per reati minori, portando spesso i procedimenti verso la prescrizione. «Nulla di nuovo – dichiara Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone – rispetto alla sentenza del 2015. Sono passati due anni e la Cedu ha dato tempo alle autorità italiane per rimediare, ma non è successo nulla. Non c’è stata una presa di coscienza né una responsabilità legislativa. Non si è messa in piedi una legge che incriminasse la tortura e incriminasse i torturatori, ma non si sono creati nemmeno meccanismi di prevenzione, perché anche questo ci si attende da un governo oculato, che vuole evitare la sanzione. Se l’Italia avesse introdotto l’identificabilità dei poliziotti, o istituito un fondo per le vittime di tortura, anche le responsabilità politiche sarebbero state valutate con minore nettezza».
A proposito di tortura, lunedì 26 giugno è la giornata che le Nazioni Unite dedicano alle vittime di questo crimine. Come ogni anno, anche stavolta migliaia di cristiani si uniranno in una veglia di preghiera che assumerà la forma di culti, celebrazioni ecumeniche, concerti, cortei e fiaccolate, in un’edizione che Acat, Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura, dedica alla speranza, con il tema La speranza ... nonostante tutto?. «Con la preghiera – si scrive – i partecipanti alla veglia notturna portano la speranza della fede».
Lo stesso giorno, alla Camera dei Deputati si comincerà a votare la proposta di legge approvata alcune settimane fa dal Senato, una norma che lo stesso estensore della prima versione, il senatore Pd Luigi Manconi, aveva definito «stravolta». A dicembre saranno trascorsi 29 anni da quando l’Italia, mettendo la propria firma sulla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, si era impegnata a introdurre nel proprio codice penale il reato. Da allora, molte volte le proposte di legge sono state affossate e dimenticate. Nel 2013, all’inizio di questa legislatura, si pensava che il testo firmato dal senatore Pd Luigi Manconi potesse essere quello giusto, in grado di superare veti e opposizioni di vario genere. Approvata al Senato nel marzo del 2014, la proposta di legge venne licenziata con modifiche anche alla Camera, all’indomani proprio della condanna del 2015 per le torture nella scuola Diaz. Il testo a quel punto venne inoltrato nuovamente al Senato, da cui è uscito il 16 maggio 2017 profondamente trasformato. «Il Senato – ricorda Patrizio Gonnella – ha licenziato un testo confuso, pasticciato, quasi pensato a tavolino perché poi non sia applicato nel futuro con una serie di elementi diretti a rendere l’interpretazione giudiziaria complessa. Ne cito due: la pluralità delle condotte e la verificabilità del trauma psichico».
Respinti tutti gli emendamenti, il disegno di legge va verso l’approvazione definitiva, senza più altri rinvii. Il problema è che questo testo arriva al voto già inadeguato: Nils Muižnieks, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, ha inviato una lettera ai presidenti di Camera e Senato, ai presidenti della commissioni giustizia dei due rami del Parlamento e al presidente della commissione straordinaria per i diritti umani del Senato, per esprimere le proprie preoccupazioni: alcuni aspetti del testo, infatti, sembrano essere in contrasto con la giurisprudenza della Cedu, le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti e con la Convenzione delle Nazioni unite sulla tortura.
«Noto – ha scritto il Commissario – che nell'attuale progetto, perché si configuri la tortura, è necessario che si verifichino più condotte di violenze, minacce o crudeltà; la tortura può anche configurarsi quando il comportamento in questione comporta un trattamento inumano e degradante. Inoltre, la tortura psicologica è limitata ai casi in cui il trauma psicologico sia verificabile».
Visto che, come scrive Muižnieks, «il progetto attuale sembra divergere dalla definizione di tortura di cui all'articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura anche per altri aspetti», si creano «potenziali scappatoie per l'impunità».
L’ex magistrato Felice Casson, oggi senatore di Mdp, tra i firmatari del testo originale, afferma che «la fattispecie del reato di tortura sarà difficilmente applicabile per la nostra magistratura e avremo episodi chiari di tortura che non verranno mai puniti». Un mese fa, era stata la Giunta dell’Unione delle camere penali italiane a criticare duramente la legge, affermando che la legge «non ha nulla a che vedere con il “modello” cui avrebbe dovuto ispirarsi, ovverosia la Convenzione Onu del 1984. Anche dal punto di vista della tecnica legislativa siamo di fronte a una delle peggiori norme penali che siano mai state scritte dai tempi del Codice di Hammurabi ad oggi».
«Come organizzazioni della società civile – conclude Patrizio Gonnella – il nostro ruolo è far sì che questa brutta legge venga applicata. Non saremo noi quelli che di fronte a una legge scritta male ci scoraggeremo e rinunceremo alla sua applicazione. Anzi, noi lotteremo perché nei meandri di una brutta legge possano essere puniti i torturatori, sapendo che sarà più difficile da applicare. Lavoreremo quindi per farla applicare e per farla migliorare, lavorando anche in sede giurisdizionale per rimuovere le parti che sono state scritte in modo tale da rendere questa norma inapplicabile».