Il riconoscimento della cittadinanza a giovani figli di immigrati è uno dei temi più importanti che si possa discutere in un Parlamento. Si tratta, infatti, di decidere «chi è italiano» o, per dirla in termini più solenni, quali siano le condizioni per condividere il patto di cittadinanza che sta alla base di ogni comunità politica. Non è un semplice contratto civile: è un accordo che implica reciproca fiducia e che formalizza l’adesione ai principi fondamentali della Repubblica e ai destini di una comunità nazionale. Molto di più, quindi, che l’ovvio impegno a rispettare le leggi e le norme. La questione è quindi filosofica nel senso che rimanda ai fondamenti ideali che definiscono una comunità civile: chi la compone? Che cosa la unisce? Può aprirsi a nuovi soggetti? In che misura e a quali no?
Nella storia dell’Occidente democratico le risposte a questi interrogativi possono ricondursi a due modelli giuridici: quello del «sangue» e quello del «suolo» o – come preferiremmo definirlo – del «patto». Nel primo caso è cittadino chi è figlio di altri cittadini dello stesso paese e pertanto ne condivide il sangue, l’etnia, la tradizione. Nella storia europea è stato il modello prevalente, perpetuato per secoli, radicalizzato nelle ideologie del razzismo, della superiorità ariana e nella discriminazione nei confronti delle minoranze, prima tra tutte quelle religiose. La limpieza de sangre, purezza del sangue, fu l’argomento ideologico e teologico che nel 1492 determinò l’espulsione degli ebrei e dei musulmani dai territori al tempo di Isabella di Castiglia, detta «la Cattolica». Un presupposto falso e puramente ideologico che però nei secoli avrebbe generato i mostri che ben conosciamo.
In tempi più recenti e spostandoci verso l’Est europeo, la radicalizzazione del principio e la cultura dello ius sanguinis hanno sconvolto i tentativi di creare Stati federali o pluralisti. Le guerre nei territori balcanici dell’ex-Jugoslavia sono state alimentate da una ideologia del sangue che ha determinato il fallimento di ogni modello «federale» di convivenza tra etnie, culture e religioni diverse.
Si obietterà che quei conflitti sono stati il frutto di nazionalismi violenti ed estremi. Vero, ma è proprio lo ius sanguinis a determinare comunità «chiuse» sulla base di un falso presupposto etnico che non regge di fronte ai processi indotti dai nuovi pluralismi che si affermano in ogni società. E infatti, col tempo, vari Stati europei in cui vigeva lo ius sanguinis hanno approvato leggi che riconoscono la cittadinanza a coloro che da un certo numero di anni risiedono nel territorio nazionale: lo ius soli, appunto, sia pure «temperato» da alcuni requisiti quali la permanenza da un certo numero di anni o la frequenza di un ciclo scolastico nel paese di accoglienza.
È accaduto, ad esempio, in Germania, in Francia, nel Regno Unito, che così si sono avvicinati all’altro modello, quello tipicamente americano dello ius soli. Puro, senza aggettivi: è statunitense chi nasce negli Usa, sia pure da genitori «clandestini» o «irregolari». Questa norma è il frutto maturo di un ideale inclusivo, della convinzione che un «patto» contratto con «nuovi cittadini» che entrano nella comunità nazionale crea un vincolo civico più solido e più solido del «sangue»; che la pluralità è una ricchezza e non un pericolo. E pluribus unum, dai molti uno, come recita il motto ufficiale degli Usa. Non deve stupire che una società di «emigranti» si «racconti» con questa formula. Così come era naturale che l’originale tradizione puritana centrata sull’idea di un patto verticale tra i credenti e Dio producesse anche l’idea politica di un altro patto orizzontale che unisce e vincola uomini e donne di diversa tradizione.
Al netto delle gazzarre parlamentari, è di questo che oggi si dibatte in Italia. Che società vogliamo essere e se siamo pronti a costruire una comunità nazionale basata su di un patto democratico che afferma diritti e doveri, pluralismo e coesione civile.