L’arte di sparare sull’ambulanza
10 maggio 2017
Rubrica «Essere chiesa insieme», a cura di Paolo Naso, andata in onda domenica 7 maggio durante il «Culto evangelico», trasmissione di Radiouno a cura della Fcei
Nelle scorse settimane il sindaco di Ventimiglia ha emanato un’ordinanza con la quale vietava l’offerta di cibo ai migranti in transito dalla cittadina ligure. La ragione del provvedimento era che, distribuendo qualche panino e qualche bottiglia d’acqua, si attraevano altri migranti. In seguito a proteste e denunce della società civile, qualche giorno dopo il provvedimento è stato ritirato ma resta il fatto che un sindaco abbia pensato di bandire la carità, di vietare il più umano dei gesti che è quello di dar da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete.
Pochi giorni dopo, un magistrato di Catania ha accusato le Organizzazioni non governative (Ong) che operano nelle acque internazionali per soccorrere i migranti di essere colluse con i trafficanti e gli scafisti. Sorprendentemente il giudice ha anche ammesso di non avere delle prove e di non potere esibire documenti certi ma intanto ha dato il «la» al coro di chi chiede la fine dei soccorsi in mare, quelli operati dalle Ong ma anche quelli operati dalle forze di polizia internazionale di Frontex e della stessa guardia costiera. La ragione assunta è sempre la stessa: aiutare chi rischia di morire in mare «attrae» nuovi migranti e quindi rende il fenomeno migratorio ingovernabile.
Molto più efficace e per così dire educativo, allora, sarebbe sospendere ogni forma di soccorso e lasciare che nel passaggio tra le coste libiche e l’Italia muoia qualche decina di migliaia di persone così gli altri, ancora affollati in Nord Africa in attesa di imbarcarsi, capiscano la lezione e rinuncino al loro progetto. Nei primi mesi del 2017 i morti sono già un migliaio. Un numero di vittime assai più alto – pensa qualcuno – produrrebbe un effetto di dissuasione a imbarcarsi ed eviterebbe all’Italia di subire flussi migratori sempre più consistenti. Se un tempo lo slogan era «aiutiamoli a casa loro», ora diventa «lasciamoli morire a casa loro». Nell’impossibilità di costruire un muro di cemento armato lungo il Mediterraneo, c’è chi chiede di alzare quello del rischio e della minaccia della morte in mare.
L’immigrazione irregolare è un problema sia per chi parte sia per chi accoglie e non c’è dubbio che vada contrastata. Il problema è come. Sparando sull’ambulanza della Croce rossa? Infangando chi pratica il soccorso in mare? Multando chi offre da mangiare agli immigrati sugli scogli di Ventimiglia? Davvero si può pensare di governare un fenomeno complesso come quello delle migrazioni mediterranee abbassando la soglia dell’umanità e del rispetto per la vita umana?
Difficile pensarlo e ancor di più accettarlo. Se risultasse che alcune delle Ong che soccorrono in mare sono colluse con i trafficanti, è giusto che vengano processate e condannate. Ma sulla base di prove certe e verificate, non di opinioni espresse in libertà. E, in ogni caso, ricordiamoci conto che le migrazioni mediterranee hanno cause ben più profonde che l’ipotetica attrazione esercitata dalle Ong. Molto più forte è l’espulsione determinata da guerre, conflitti, persecuzioni, fame. E nella disperazione della fuga, in assenza di vie legali, si ricorre a quelle illegali. Siamo di fronte a un fenomeno drammatico e dirompente che va governato con gli strumenti della politica e dell’economia. Altri morti in mare non risolverebbero alcun problema e sarebbero soltanto un altro peso sulla nostra coscienza.