Sabato 1 aprile la Svizzera ha chiuso in via sperimentale tre valichi secondari di frontiera con l’Italia, quelli di Pedrinate-Colverde e Novazzano-Ronago, in provincia di Como, e Ponte Cremenaga, in quella di Varese.
Il provvedimento è stato seguito immediatamente da critiche e proteste da parte dei sindaci del lato italiano, che si sono ritrovati a Cremenaga per chiedere che la misura venga rivista, perché penalizza gli abitanti dei loro comuni.
L’ambasciatore svizzero in Italia, Giancarlo Kessler, che è stato subito convocato dal ministero degli Esteri, ha spiegato che la misura va considerata una sperimentazione temporanea, e ha ricordato che la chiusura dei tre valichi è soltanto notturna.
Secondo lo storico Roberto Roveda, collaboratore del settimanale svizzero Ticino7 e della rivista di geopolitica Limes, «è la classica operazione di facciata per accontentare i leghisti ticinesi che denunciavano la facilità con cui si penetra nei confini svizzeri, cosa tra l’altro non vera, visto che i confini svizzeri sono molto ben presidiati. Berna ha voluto dare loro un contentino autorizzando la chiusura di questi tre valichi secondari dalle 23 alle 5 del mattino». Una vicenda che ha generato anche alcuni paradossi, come le dichiarazioni di Christian Tolettini, il sindaco leghista di Colverde, in provincia di Como, secondo cui il provvedimento «non ha senso» perché «la sicurezza non si ottiene blindando i confini». Tuttavia, la questione va compresa al di là del suo aspetto più evidente.
È solo una misura simbolica?
«Non solo, è anche un modo per risparmiare effettivi della polizia di confine. Lo Stato svizzero non ha più le risorse per presidiare 24 ore su 24 tutti i valichi, e per questo ha deciso di chiuderne tre durante la notte per risparmiare sugli effettivi. È un po’ l’effetto di due fattori: figlio della globalizzazione questo desiderio di chiusura, figlia della crisi economica questa difficoltà, anche da parte degli svizzeri, di avere risorse per gestire un numero adeguato di guardie di confine».
Il tutto nasce da una petizione del 2014 degli abitanti del Canton Ticino, sponsorizzata dalla Lega dei Ticinesi, con lo scopo dichiarato di «combattere la criminalità frontaliera», come si legge nella richiesta ufficiale. Ma quello della criminalità è veramente un problema nel Ticino?
«Diciamo che lo è nel momento in cui noi riconosciamo che ci può essere criminalità tra gli immigrati o tra i clandestini esattamente come c’è tra i residenti. Detto questo, è anche chiaro che la Svizzera è un paese ricco, ha determinate possibilità, attira determinati lavoratori, ma può attirare anche chi magari non vuole lavorare ma cerca di fare altro. Tuttavia, parliamo di un paese con un’altissima garanzia di sicurezza, sicuramente più elevata di quella dell’Italia: fino a pochi anni fa nelle banche svizzere si entrava senza bisogno di metal detector né di altri dispositivi, oggi la cosa è cambiata perché c’è stata qualche rapina, ma teniamo presente quello che succedeva in Italia negli anni Settanta e facciamo le dovute proprzioni. Siamo in un paese in cui si vive bene e in sicurezza ma in cui ogni situazione viene enfatizzata, quindi basta un borseggiatore o una rapina, o un qualche caso di droga e subito diventa un caso nazionale, soprattutto in Ticino, perché un po’ fa ravvivare questi sentimenti anti-italiani, anti-europei e soprattutto anti-europei dell’est».
È davvero così facile entrare in Svizzera?
«Devo ripartire da un episodio: mi è successo pochi giorni fa di superare il valico più importante tra Italia e Canton Ticino, quello di Chiasso. Un pullman era stato fermato e tutte le persone erano state fatte scendere dal pullman e messe in circolo: ognuno aveva davanti a sé la propria valigia, erano in attesa di essere perquisiti e controllati in maniera molto capillare. Ora, dalla fisionomia delle persone mi sembravano persone dell’est, ma centra poco da dove provenissero, perché in ogni caso mi è sembrato un po’ un segnale dell’isteria legata anche alla volontà di mostrare un controllo di cui forse c’è un bisogno mediatico più che reale. Insomma, si sa che la Svizzera in questo momento non fa entrare le persone facilmente: ci sono persone che si chiudono nei trolley per entrare clandestinamente, si nascondono sui treni. Va detto che c’è anche molta polemica: ci sono associazioni e chiese che stanno protestando contro questi atteggiamenti, ma fa parte del clima di paura che stiamo vivendo, della volontà di ergere piccoli e grandi muri».
Quello che succede nel Ticino spesso è una riproduzione in scala di molte dinamiche politiche italiane. Negli altri cantoni come viene vissuta questa voglia di chiusura del Ticino?
«In modo molto distaccato. Un po’ perché i cantoni francofoni sono sempre stati più disponibili all’apertura, pensiamo a Ginevra, dove c’è un viavai continuo con la Francia, un po’ perché a nord il problema non si pone, perché si confina con la Germania che notoriamente viene considerata più sicura dell’Italia. Il problema è molto ticinese, il Ticino si sente un po’ abbandonato, chiuso nella sua enclave, perché a nord c’è il Gottardo e a sud c’è l’Italia, un confine meridionale che considerano estremamente insicuro. Diciamo che non tutte le immigrazioni sono uguali per gli svizzeri».
Questa fase che vive il Ticino e che vivono i confini svizzeri è appunto soltanto una fase o è qui per rimanere?
«Io sono uno storico di formazione e se devo vedere quello che è successo negli ultimi cinquant’anni allora devo tenere in conto che abbiamo vissuto un mondo, che è stato quello degli anni Sessanta e Settanta, che è andato molto verso una mentalità di sinistra e progressista, poi abbiamo avuto gli anni Ottanta e Novanta con un mondo molto edonista e portato all’apertura che ci ha portato alla globalizzazione. In effetti, 25 anni fa l’idea di avere i confini aperti era una cosa che entusiasmava. Oggi abbiamo una situazione di reflusso anche perché forse si sono fatti dei passi in avanti senza dei piccoli passaggi intermedi. Dire dove ci porta il futuro è difficile, se non si risolvono le questioni economiche sappiamo benissimo che ci sarà sempre più chiusura e sempre più difficoltà. Bisogna anche dire che a livello europeo il cataclisma che ci si aspettava con la vittoria della destra in Austria, in Olanda, non c’è stato. Adesso vediamo come andrà in Francia con le elezioni, la Svizzera in sé è comunque un paese che continua ad andare avanti in una direzione diversa dalla “pancia” degli elettori, soprattutto del Ticino, quindi mi sento abbastanza fiducioso. Il mondo non viene fatto in un attimo e non cambia in un attimo, però stiamo in un momento in cui si ragiona molto a vista e non si programma il futuro».