Il Signore disse a Elia: «Io lascerò in Israele un residuo di settemila uomini, tutti quelli il cui ginocchio non s’è piegato davanti a Baal»
I Re 19, 18
Gesù disse ai discepoli: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove»
Luca 22, 28
La nostra vita è un alternarsi di buona e cattiva sorte, l’amore e la fedeltà che lega l’un l’altra le persone sono sottoposti continuamente a «prove». Queste «prove» possono essere le più varie: malattie, sofferenze, distacchi forzati, lontananza. Essere migranti, per esempio, sottopone le persone non solo ai pericoli e alle incognite dei viaggi, alle difficoltà di comprensione per la lingua, per i diversi usi e costumi, per religione diversa. Ma anche al distacco dalla propria casa, dalle proprie famiglie, dal marito o dalla moglie, dai genitori, dai figli. Dolori sopra dolori. E c’è la sofferenza della perdita della propria identità, che è fatta di relazioni con queste persone e ambienti. Ne sanno qualcosa gli uomini e le donne del nostro Sud, che per decenni sono emigrati, lasciando ogni certezza «per terre assai lontane», muniti soltanto della speranza di poter superare le «prove», rimanendo se stessi in contesti tanto diversi, fedeli ai propri affetti e al proprio mondo.
Anche Gesù ha attraversato «prove»: distacchi – dalla famiglia – tentazioni – nel deserto – dolori –la morte dell’amico Lazzaro, ad esempio. E sa di dover attraversare la prova più grande, proprio a ridosso del Getsemani: di qui queste parole di riconoscimento ai discepoli che nel tempo passato non lo hanno abbandonato, ma al tempo stesso implicitamente un invito a perseverare con tenacia nell’amore e nella fedeltà. Ai discepoli, come a ciascun credente, è necessario non solo aver udito il suo insegnamento, ma averlo compreso profondamente e perciò condividere «la buona e la cattiva sorte», fortificando la scelta di non abbandonare la via intrapresa con la sequela del loro, e nostro Maestro.