Dei toscani veri aveva il sarcasmo, il senso della battuta e un anticlericalismo congenito Giovanni Sartori, morto ieri a Roma all’età di 92 anni. Abilissimo forgiatore di neologismi ricordati in queste ore da tutti i mezzi di informazione: da mattarellum a porcellum i cronisti politici e i titolisti dei giornali gli devono molto. Temutissimi dalla classe politica i suoi editoriali , quanto apprezzato e premiato dal mondo accademico la capacità di analisi e lettura dei fenomeni legati alla gestione della cosa pubblica. Delle molteplici caratteristiche di ragionamento e di aneddoti personali fioriranno oggi i necrologi vari. Piace ricordare che per 15 anni la prestigiosa università statunitense Columbia di New York gli ha affidato la cattedra in scienza umanistiche intitolata alla memoria di Albert Schweitzer, il teologo e grande organista che divenne medico, missionario, premio Nobel per la Pace nel 1952. Del pastore luterano alsaziano Sartori condivideva certamente il senso dell’etica, che per il primo non era però una scienza ma un insieme di principi individuali che plasmano in maniera differente ogni essere umano. I fatti, le azioni fanno l’uomo, su questo i due hanno tratti affini, compresa la passione per il dialogo, l’incontro con l’altro. Non affini sono le conclusioni: Schweitzer mise la propria esistenza a disposizione delle popolazioni africane, non smettendo mai di ricordare le responsabilità dell’occidente per le drammatiche condizioni di arretratezza e miseria cui milioni di persone erano costrette a sopravvivere, mentre Sartori, soprattutto negli ultimi periodi ha accentuato l’insito pessimismo finendo per sostenere le invettive di Oriana Fallaci sullo “scontro di civiltà” fra mondo islamico e resto del mondo, all’indomani degli attentati dell’11 settembre (celebre a proposito il botta e risposta con Giovanni Terzani). Meglio quindi ricordarlo alle prese con la materia che gli ha dato prestigio e fama, la scienza della politica, che ha contribuito a diffondere e difendere (nonostante gli attuali interpreti lo facessero rabbrividere) quale unico baluardo alla deriva di una società atomizzata e individualista. Illuminanti a tal proposito le parole del saggio Homo videns, datato 1997, agli albori dell’era informatica, e nel pieno boom di quella televisiva. Vent’anni fa, pare una vita, in realtà è un soffio, e Sartori scriveva così:
«Siamo in piena e rapidissima rivoluzione multimediale. Un processo a molti tentacoli (Internet, computer personali, ciberspazio) che è però caratterizzato da un comune denominatore: il tele-vedere, e per esso un nostro video-vivere. Il video sta trasformando l'homo sapiens prodotto dalla cultura scritta in un homo videns nel quale la parola è spodestata dall'immagine. Tutto diventa visualizzato. Ma in tal caso cosa succede del non-visualizzabile, dell’astratto (che è il più)?
Così mentre ci preoccupiamo di chi controlla i media, non ci avvediamo che è lo strumento in sé e per sé che è scappato di mano.
Della televisione si lamenta che incoraggia la violenza, oppure che
informa poco e male, oppure che è culturalmente regressiva (come ha scritto Habermas). Vero. Ma è ancor più vero e ancora più importante capire che il tele-vedere sta cambiando la natura dell'uomo. Il mondo nel quale viviamo già poggia sulle gracili spalle del «video-bambino»: un nuovissimo esemplare di essere umano allevato dal tele-vedere davanti a un televisore ancor prima di saper leggere e scrivere.
Non pretendo di bloccare l'età multimediale. So benissimo che tra non molto una maggioranza della popolazione dei paesi opulenti avrà in casa, in aggiunta alla televisione, un mini-computer collegato con Internet. Questo sviluppo è inevitabile e, nei limiti, utile; ma utile purché non ci faccia sprofondare nella vita inutile, in un vivere che è solo ammazzare il tempo. Dunque, non pretendo di fermare l'inevitabile. Spero però di spaventare abbastanza i genitori su cosa
accadrà al loro video-bambino da trasformarli in genitori più responsabili.
Spero che la scuola esca dalla cattiva pedagogia e dal degrado nel quale è caduta, e dunque spero in una scuola atta a contrastare quel
post-pensiero che sta invece aiutando. Spero anche in giornali migliori, e alla fin fine in una televisione migliore. E poi, anche se la mia fosse una battaglia perduta in partenza, non mi importa. Come diceva Guglielmo d'Orange, “point n'est besoin d'espérer pour entreprendre, ni de réussir pour persévérer”, non occorre sperare per intraprendere, né riuscire per perseverare».
Nella citazione finale torna ancora un protestante, questa volta l’eore dell’indipendenza olandese, baluardo della libertà religiosa, di cui si sottolinea l’etica pragmatica. Citazioni e incroci curiosi per questo toscano che non a caso amava gli Stati Uniti, e che verrà seppellito a Firenze senza funerali di sorta, religiosi o laici.