Con i suoi 260.000 km quadrati di estensione, poco meno dell’Italia, il Sahara Occidentale è il più grande territorio non autonomo al mondo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Basterebbe questa affermazione per far comprendere l’importanza di quest’area, occupata dal Marocco nel 1975, eppure si tratta di uno tra gli scenari in assoluto meno noti ed esplorati dall’informazione generalista. La sensazione è quella di un luogo in cui la storia è sospesa tra il bisogno di autonomia e i veti internazionali, in una situazione praticamente congelata dagli anni Novanta a oggi.
Tuttavia, negli ultimi mesi l’area, contesa tra il governo del Marocco e dal Frente Polisario (sigla che sta per Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro), che rivendica l’indipendenza del popolo Sahrawi, è tornata a far parlare di sé perché si è arrivati davvero vicini a uno scontro armato. «Dopo anni in cui il processo di pace non andava avanti, ma se non altro non si sapeva di dispiegamenti di eserciti – racconta infatti il giornalista Luca Attanasio, esperto della questione Sahrawi – purtroppo dall’estate scorsa la situazione è diventata sempre più critica nell’area di Guerguerat, al confine con la Mauritania, una zona cuscinetto che secondo gli accordi doveva essere “di nessuno”». L’estrema punta meridionale del Sahara Occidentale è stata occupata dalle forze marocchine, che hanno mandato truppe della Gendarmeria reale con lo scopo dichiarato di combattere il traffico di esseri umani, droga e terrorismo, che in effetti avviene da quelle parti. «In realtà – prosegue Attanasio – secondo i Sahrawi è un metodo per prendere possesso di qualche km di terra e di violare in maniera piuttosto grave gli accordi che prevedevano che ognuno rimanesse entro certi limiti».
Siamo arrivati a poche centinaia di metri da uno scontro fisico tra le forze armate dei due schieramenti. Come si è evitato il conflitto?
«È intervenuto il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che ha chiesto in maniera piuttosto perentoria al Marocco di rispettare gli accordi e di fare un passo indietro. A questo punto il re del Marocco, Mohamed VI, ha annunciato che ritirerà le truppe dalla zona di Guerguerat. Questa mossa allenta le tensioni, perché si era a poche centinaia di metri gli uni dagli altri con in mezzo un manipolo di caschi blu che non avrebbe potuto fare più di tanto. Questa situazione ha riportato a galla le tensioni che non si sono mai sopite dalla primavera araba in poi, quindi il fatto che si sia fatto un passo indietro sicuramente è positivo».
È considerato allo stesso modo anche da parte dei Sahrawi?
«No, dalla parte del Polisario l’annuncio non è stato accolto con trionfalismo, al punto che martedì è uscita una nota in cui si diceva che «il ritiro del Marocco, annunciato da Rabat, è semplicemente fumo negli occhi, perché il ministero degli Esteri marocchino non ha specificato le modalità del ritiro ma ha semplicemente affermato che l’operazione si farà». Insomma, c’è ancora molta diffidenza, anche se credo che, vista la posizione che ha preso il re di fronte a Guterres, la cosa avverrà sicuramente nei termini e nei modi previsti, spero brevemente».
Anche se il Marocco si ritirasse da quella piccola zona, lo status del Sahara Occidentale resta un problema. Perché Rabat tiene così tanto al controllo di quel territorio?
«Innanzitutto perché è una zona ricca di fosfati, molto pescosa, che dà sull’Oceano Atlantico, e quindi ha molti interessi di tipo economico nel mantenere il possesso di quella zona. Bisogna ricordare che per metà del mondo, quello “che conta”, cioè il mondo occidentale, il più industrializzato, il Sahara Occidentale non esiste, è semplicemente la regione più a sud del Marocco. Dall’altra parte, per 87 Paesi, molti africani, un po’ di asiatici, qualche sudamericano, la Rasd, la Repubblica Araba Sahrawi Democratica, esiste a tutti gli effetti e ha rappresentanze diplomatiche sparse in questi paesi. Il fatto che dietro il Marocco ci sia storicamente la Francia fa sì che l’Unione europea, per esempio, faccia fatica a sostenere la causa Sahrawi. Il problema è anche che la situazione a questo punto si è incancrenita».
Che cosa significa?
«Dobbiamo tornare al 1975, quando dopo la morte di Francisco Franco la Spagna uscì di scena abbandonando la colonia del Sáhara Español ed entrarono i coloni marocchini che parteciparono alla Marcia Verde. Dopo molti anni di conflitto e tensioni si era arrivati a un accordo che prevedeva un referendum per l’autodeterminazione; ecco, se all’inizio degli anni Novanta questo referendum aveva un senso e poteva quasi sicuramente portare all’autodeterminazione, nel frattempo la zona è stata talmente “marocchinizzata” che l’esito di questo ipotetico referendum non sarebbe così scontato. Questo, tra l’altro, me l’hanno spiegato diverse fonti che vivono lì, sia di una parte che dell’altra, o fonti neutrali, come il rappresentante della Nunziatura apostolica cattolica, che è un osservatore neutrale esterno in grado di fornire dati molto interessanti. Fatto sta che questo benedetto referendum non si celebra da ormai tantissimi anni e questo risulta ovviamente come una beffa».
Un processo non troppo diverso, ma indubbiamente meno sistematico, da quello dello Xinjang, in Cina, un’area che è stata man mano “uniformata” etnicamente in modo da ridurre le pulsioni separatiste. Del Sahara Occidentale si parla davvero poco, forse perché investe poco l’Italia in termini di migrazioni. Qual è lo status delle persone che lasciano il Sahara Occidentale per cercare di raggiungere l’Europa?
«In Italia ne arrivano veramente pochissimi. È difficile che chi chiede asilo politico lo ottenga tout court, perché il Marocco, per certi versi anche a ragione, non è considerato un paese particolarmente pericoloso o tale da giustificare il rilascio di status di rifugiato a chi fugge. Certo è che moltissimi attivisti Sahrawi sono stati e continuano a essere perseguitati e alcuni sono spariti, altri sono morti e per loro la fuga e un eventuale ritorno sarebbero estremamente pericolosi».
L’opposizione politica all’occupazione marocchina è sentita anche dalla società civile della Rasf?
«Moltissimo. Addirittura, secondo commentatori autorevoli come Noam Chomsky e alcuni editorialisti del New York Times, i Sahrawi furono i veri inventori delle primavere arabe. Nell’ottobre del 2010 ci fu una prima sollevazione pacifica a Gdeim Izik, alla periferia di Laayoune, la capitale, dove tantissimi Sahrawi chiedevano pane, giustizia e diritti e purtroppo queste manifestazioni furono soffocate nel sangue. Tantissimi arrestati dell’epoca sono ancora in attesa di giudizio e si parla anche di torture o trattamenti inumani».
Dopo questa fase di tensione tornerà tutto come prima, quindi a una situazione che appare immutabile?
«Difficile dirlo. In tutto questo però entrano in gioco due notizie che arrivano dal fronte marocchino e sono di grandissimo interesse e con un peso geopolitico di livello storico, anche se sono state accolte ovviamente sempre con sospetto dai Sahrawi. Prima di tutto, di recente il Marocco è rientrato nell’Unione africana, dopo che ne era uscito proprio per la questione Sahrawi, proprio perché l’Unione africana stessa aveva riconosciuto la Rasd, ed è un riento recentissimo, neanche un mese fa al vertice di Addis Abeba, dove è stato proposto, discusso e accettato questo ritorno. Questo secondo me alla lunga può favorire un allentamento delle tensioni, e comunque sia rimette le due realtà in seno a un organismo sovranazionale di grande importanza.
L’altra novità è che di recente il re ha emanato una nuova norma abolendo la pena di morte per chi in Marocco abbandona l’Islam. Ora, questo non c’entra niente coi Sahrawi in modo diretto ed esplicito, ma è il segno di una serie di trasformazioni dell’ordinamento marocchino che potrebbero in ogni caso favorire il rispetto dei diritti, e potrebbe essere il segno di una volontà da parte di Rabat di affrancarsi da un giudizio negativo rispetto ai diritti umani e rispetto al fatto che in fondo il Marocco è l’ultimo colonizzatore d’Africa».