Il fatturato del gioco d’azzardo legale nel nostro paese è di circa 95 miliardi di euro, un volume d’affari che supera nettamente diverse aziende multinazionali molto note e che caratterizzano la nostra vita quotidiana. Anche il gioco d’azzardo caratterizza le nostre vite quotidiane soprattutto per l’aumento delle patologie legate alla dipendenza da gioco che colpiscono fasce della popolazione sempre più giovani. Qualche settimana fa, alcuni liceali di Prato sensibili al problema che coinvolge i loro coetanei hanno scritto al calciatore della Roma Francesco Totti per chiedergli di non essere più testimonial dell’azzardo legalizzato in Italia. Il Governo sta lavorando sulla riorganizzazione della rete italiana, ma secondo gli esperti non è sufficiente per scongiurare il pericolo: ne parliamo con Marco Dotti, docente di Professioni dell’editoria all’Università di Pavia, autore di diversi libri sul gioco d’azzardo e collaboratore del periodico Vita.
Miliardi spesi, nonostante la crisi, e patologie: sono solo questi i problemi?
«No. Parliamo di numeri per esempio: qualche giorno fa l’agenzia dei Monopoli di Stato, deputata al controllo legale del gioco d’azzardo, ha diramato un lancio Ansa in cui specificava che la spesa di gioco d’azzardo sarebbe di 16 miliardi l’anno per gli italiani. Questo però è un trucchetto: il dato effettivo, il fatturato dell’industria del gioco d’azzardo, è di 95 miliardi. Perché i Monopoli ci devono dire che la cifra che gli italiani perdono è diversa? Perché sono in difficoltà. Questa patologia infatti ha dei risvolti individuali, ma aggredisce un bene primario, cioè il legame sociale, la dignità, la salute, l’ordine pubblico. Siamo davanti a una grande impasse istituzionale e di democrazia. L’azzardo legale sta corrodendo il tessuto democratico del nostro paese».
Quindi si divulgano numeri sbagliati?
«No, ma si usano parole fuorvianti: si parla di “raccolta di gioco” invece che di fatturato, che è appunto di 95 miliardi solo per l’anno scorso. Lo Stato ha degli interessi, incassa circa 9 miliardi, ma con dei paradossi: ne spende quasi 2 per incassare gli altri, senza contare quanto spende in sicurezza, forze dell’ordine, interventi sanitari a medio e lungo termine, dati che non conosciamo perché non si vogliono quantificarle. Lo Stato è dunque in perdita: siamo di fronte a un fenomeno di esternalizzazione dei costi, lo Stato paga i costi di un profitto privato. Il problema è che manca una visione prospettica che abbia al centro della politica il bene comune e il legame sociale; se invece al centro c’è il business allora capiamo la logica perversa che sta dietro al sistema. Mettere al centro il cittadino è una richiesta della Costituzione, all’articolo 41, che oltre a parlare della libertà di impresa ci dice che la stessa non può essere in pregiudizio della salute e della dignità umana».
Il dibattito sul tema è sufficiente?
«Gli interventi del Governo puntano a una riorganizzazione della rete. Tuttavia manca un punto fondamentale, ovvero il perché. La legge di stabilità del 2016 prevede che la si debba riorganizzare per garantire più tutela ai cittadini in termini di sicurezza e salute e ordine pubblico. A oggi mancano molte cose, mi pare che la ratio sia solo una riorganizzazione del business. Ritiriamo un po’ di slot machine ma creiamo più punti di gioco e mini casinò, cosa che mantiene inalterato il fatturato per i privati e per lo stato: questa logica non va e ovviamente molte Regioni e molti comuni si sono opposti. È chiaro che una riorganizzazione ci vuole, non possiamo negare l’invasione e la pervasività degli spazi di aggregazione della vita quotidiana da parte del gioco d’azzardo. Ma dobbiamo sempre ricordare che rischiamo di cadere dalla padella alla brace: se il progetto è creare 18.000 mini-casinò sui territori, a fronte di 8.000 comuni, in Italia avremmo casinò di quartiere, quasi ovunque».
Qual è la strada allora?
«Credo sia importante che i sindaci mantengano ciò che hanno conquistato a fatica in questi mesi e anni, cioè il potere di determinare la distanza delle sale gioco e punti vendita dai luoghi sensibili, oltre a stabilire limitazioni di orari. Questi due punti, che sembrano simbolici, sono in realtà molto concreti perché vanno a intaccare il business, vanno a limitare l’offerta. I grandi economisti, come Akerlof e Shiller, ci spiegano che questo è un mercato sporco o asimmetrico, dove l’offerta non risponde alla domanda naturale, ma crea e droga la domanda. Proprio per questo ogni prevenzione va fatta proibendo o bloccando la domanda. Il punto è se si riuscirà a mantenere il potere centrale dei sindaci e delle Regioni nel regolamentare le distanze e orari. Ecco, allora sarà un buon passo avanti».
I ludopatici sono quasi 800mila, il 17% sono giovanissimi: numeri in aumento.
«Certamente, perché i più giovani sono il bersaglio preferito di questa mega industria che fa leva sulle fragilità e le debolezze umane. Sono i potenziali clienti non solo di oggi, ma anche di domani e c’è interesse a creare delle abitudini: i ragazzi di oggi sono cresciuti a diretto contatto con l’azzardo di massa. Se prima occorreva spostarsi fisicamente al casinò o alla bisca, ora si è culturalmente e naturalmente immersi in questo ambiente, sia online che offline. Si creano abitudini dipendentizzanti, che possono far scaturire una dipendenza devastante. A mio parere, un marketing dell’orrore».