La lettera, firmata da seicento insigni professori universitari e scritta dal «Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità» al presidente del Consiglio, al Parlamento e alla ministra dell’Istruzione, denuncia con apprensione l’ignoranza linguistica degli studenti, carenti in grammatica, sintassi e lessico «con errori appena tollerabili in terza elementare». Non è cosa nuova. Meno consapevole è il perché ciò sia successo e meno d’accordo ancora si è sui rimedi, tanto che spesso si scarica su chi ha agito prima la responsabilità delle ignoranze disciplinari: le Università accusano le superiori, queste le medie inferiori e infine, a pioggia, tutti puntano il dito sulle elementari per la cattiva preparazione dei discenti.
S’invocano di nuovo tecniche antiche, come il riassunto, la poesia a memoria, il dettato, ma si dimentica perché erano state contestate dalla cosiddetta «scuola attiva» degli anni Sessanta del passato secolo. La storia, come sempre, aiuta a capire. A quei tempi, proprio quegli strumenti erano parte di una relazione autoritaria fra docente e allievo, in cui la lezione frontale era tutta centrata sulla figura della maestra o del professore. Solo oggi si pensa che il dettato, il riassunto, l’ortografia… possano avere un valore di per sé, perché legati allo sviluppo della memoria.
In quegli stessi anni, la vita sociale aveva portato il suo rumore fin dentro la scuola, reclamandola più aderente a una realtà che non era più quella solo contenuta nel sussidiario. Ci si apriva alla ricerca, all’interdisciplinarietà perché il mondo non era diviso per materie e soprattutto c’era più attenzione alla psicologia di chi studiava. Nei decenni, l’asse si è spostato quasi interamente sulle tecniche di apprendimento da un lato (con estreme specializzazioni) e sui diritti dei lavoratori (con estreme sindacalizzazioni del mestiere di insegnante), in un contesto di continue tentate riforme della scuola, voluta sempre più simile a un’azienda che a uno spazio di laboratori didattici. In altre parole, la scuola è stata un terreno di scontro di molte forze che l’hanno depotenziata, mentre in generale si assisteva al deprezzamento del valore della cultura e della buona lingua.
Tuttavia, saper bene l’italiano significa anche saper ragionare bene. Più parole si sanno, più si spiegano le differenze delle cose e dei sentimenti. Se si sanno solo cinque parole, il mondo viene compresso in quei cinque stretti contenitori, irrigidendo le strutture di pensiero. Ma proprio questo è il problema. Non è per cattiveria che si sanno solo cinque parole. Di solito è l’ambiente dove siamo cresciuti che ci insegna a parlare. Là dove si legge e si conversa, i bambini imparano molto, ma non dove si biascica. La lingua è una questione sociale e ben lo aveva insegnato la Scuola di don Milani a Barbiana. Per questo, specie nella scuola dell’obbligo, la «scuola attiva» (di Dewey, Claparède, Cousinet, dei coniugi Freinet… per non dire che dei fondatori) poneva al centro dell’insegnamento la «ricerca-azione» alla quale agganciare, in un orizzonte di senso diverso, anche le tecniche come il riassunto, il dettato, l’ortografia…
Forse oggi sarebbe utile una sintesi fra i principi della «scuola attiva, ormai poco declamati, e la riscoperta del valore di ortografia e grammatica, senza romanticismi. Chi non ricorda con gioia, infatti, fra i sessantenni di oggi, «L’albero a cui tendevi/ la pargoletta mano,/ il verde melograno/ da’ bei vermigli fior… » (Carducci), oppure, in ambito valdese, quei versetti recitati alla monitrice della scuola domenicale che tante volte nella vita poi hanno commentato uno stato d’animo, un dolore o una gioia? Come recuperare una dimensione di memoria, di scrittura regolata dalla grammatica, di pensiero chiaro e ricco di parole in tempo di web, di rete, di giornalismi stereotipati? È la scommessa culturale non solo della scuola, ma di una società che corre sempre più in fretta e per questo deve essere in permanente alfabetizzazione.