Il 2011 è stato un anno decisivo per il Mediterraneo e per le popolazioni che ci vivono. Inaugurato con la rivoluzione in Tunisia e proseguito con le cosiddette “primavere arabe” e lo scoppio della guerra civile in Siria, viene ricordato nel nostro Paese anche per il tentativo, da parte del governo retto allora da Silvio Berlusconi, di rispondere ai crescenti flussi migratori dal Nord Africa con un decreto nel quale si istituiva lo stato d’emergenza. Cominciava così il 12 febbraio 2011 la stagione del piano Emergenza Nord Africa, che formulava direttive specifiche per la gestione dei profughi sbarcati principalmente a Lampedusa e per la loro assegnazione agli uffici territoriali della Protezione civile, incaricati di designare i “soggetti gestori” ai quali doveva competere la fornitura di tutti i servizi assistenziali e socio sanitari da fornire ai richiedenti asilo.
Il sistema, prorogato fino al 31 dicembre 2012, è tornato recentemente al centro di un’indagine svolta dalla Guardia di Finanza e poi tradotta in sentenza dalla Corte dei Conti, che ha portato alla condanna di uno di questi “soggetti gestori”, incaricato dalla Protezione civile del Lazio e colpevole di aver dichiarato spese non realmente sostenute e di aver “gonfiato” alcune fatture.
«In sintesi – racconta l’avvocato Marco Paggi, che collabora con Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione – si contesta in particolare l’utilizzo di fondi relativi alla gestione del servizio per attività e impieghi diversi da quelli previsti. Erano state rendicontate spese che avrebbero dovuto essere giustificate sulla base di determinate prestazioni e soprattutto sull’uso di determinate strutture, ma queste in realtà erano già disponibili». Inoltre, il gestore si era avvalso di ulteriori soggetti esterni, delegando a questi ultimi tutti i servizi necessari per la realizzazione del progetto di accoglienza.
Nella sentenza della Corte dei Conti si legge anche che «le condizioni alloggiative erano pessime e non qualificabili in alcun modo».
Questo modello sembra appartenere a un passato lontano, risalente ormai a quattro governi fa, eppure è impossibile considerare chiusa l’epoca delle migrazioni di massa, sempre più al centro di un dibattito che di anno in anno si è fatto più duro e più intransigente, dimenticando a volte che dietro alle parole “migranti”, “richiedenti asilo” e “profughi” ci sono persone, con le loro storie e le loro relazioni interrotte dalla migrazione, e che questo livello imporrebbe la massima attenzione alla dignità di coloro che sono ospitati all’interno delle strutture di accoglienza.
Avvocato Paggi, quando si racconta della condanna avvenuta nel Lazio parliamo di un caso isolato?
«Nella fattispecie sì, questo è un caso specifico che verosimilmente avrà anche dei risvolti penali. Tuttavia, la problematica della gestione delle strutture di accoglienza non va letta solo con riferimento al singolo caso di malagestione, anche perché il problema non è soltanto la cattiva gestione, che se c’è va verificata caso per caso, senza generalizzare: il problema generale è quello dell’adeguatezza della gestione emergenziale e dell’allestimento di questi hub, nei quali quantità enormi di persone vengono stipate per lunghissimo tempo in condizioni che sono indecorose e non assolvono a nessuna esigenza di tutela dell’ordine pubblico, ma semmai producono allarme sociale e disordine».
Le ragioni della gestione emergenziale in grandi strutture sono da cercare nel desiderio di risparmiare denaro?
«No, queste concentrazioni non solo non servono a nessuno, ma non costituiscono nemmeno un risparmio di spesa, perché a prescindere dalla buona o cattiva gestione strutture di questo genere comportano spesso per loro stessa natura dei costi superiori rispetto a quelle che sarebbero da sostenere per inserire le persone in strutture più diffuse sul territorio e più accettabili anche per le comunità ospitanti».
Il modello emergenziale appartiene solo al passato, al 2011?
«Niente affatto. Per fare un esempio, ho partecipato a una delegazione che ha visitato l’hub di Conetta, in provincia di Venezia. Qui oltre il 90% degli ospiti dormono in tensostrutture, che altro non sono se non enormi tendoni. Le persone vivono in brande a castello, accatastate l’una accanto all’altra, senza neppure un armadietto, così che tutto quello che possiedono debba essere gestito sul materasso, che è l’unico spazio disponibile per ogni singolo individuo. Oltretutto non dimentichiamo che le persone generalmente hanno un tempo di permanenza in queste strutture che va anche oltre l’anno. Al di là delle condizioni di vita, però, si pensi per esempio al costo necessario per garantire un riscaldamento minimamente accettabile in una struttura del genere che non ha nessun tipo di isolamento termico: è un costo scandaloso non a causa della cattiva gestione, ma perché l’impostazione di una struttura del genere non consente una corretta economia».
Sono passati quasi 6 anni dall’istituzione dello stato di emergenza: era il 12 febbraio del 2011 quando venne firmato il decreto. Che cosa rimane oggi di quel modello, al di là dei singoli esempi? Soprattutto, all’interno del sistema emergenziale, sono stati applicati dei correttivi in alcuni aspetti chiave?
«Francamente non mi sembra che vi siano stati dei correttivi. Semmai rispetto al passato, in cui veniva garantita una cifra fissa per ogni ospite, ora si tende ad andare al massimo ribasso anche per l’assegnazione di appalti, e questo induce a fornire un servizio peggiore. Il problema poi non è soltanto quello di quanto costi l’ospitalità per ciascuna persona, ma di quali standard debbano essere garantiti. Faccio un esempio banale: se una persona che è qui in attesa del riconoscimento della protezione internazionale vuole sperare di inserirsi socialmente e dal punto di vista lavorativo sul nostro territorio, è chiaro che dovrà imparare l’italiano. Ebbene, se non sono previsti e garantiti degli standard minimi per l’insegnamento della lingua italiana con dei criteri di qualità che vadano oltre la mera apparenza è chiaro che il problema diventa la qualità, e non la quantità, della spesa. Per fare un esempio, in quesi enormi hub gestire dei corsi di lingua italiana che possano permettere un graduale apprendimento da parte degli interessati è sostanzialmente impossibile, perché la grande quantità di popolazione e l’alto tasso di ricambio degli ospiti non permette di garantire un percorso minimo di crescita dell’apprendimento. Se una persona che si trova lì da un anno continua a vedersi offrire un corso di italiano che vale anche per quelli che sono lì da una settimana, allora continuerà a non sapere niente di italiano, se non le solite quattro o cinque parole».
Nel suo bilancio di fine mandato, il governo dimissionario guidato da Matteo Renzi ha inserito tra i punti qualificanti di questi due anni e mezzo l’avvio di un passaggio dalla gestione emergenziale dei Cas a quella strutturale dello Sprar. Sulla carta è un processo in corso, ma nella realtà è così?
«No, questo disegno è ancora al di là da venire. Naturalmente non può che essere condiviso in linea di principio, il problema è che il sistema Sprar finora è stato sostanzialmente basato sul volontariato delle amministrazioni locali: chi vuole decide quante persone ospita e a quali condizioni, chi non vuole semplicemente si chiama fuori. Quindi si capisce bene che in termini anche banalmente elettorali questo sistema basato sulla disponibilità volontaria non potrà mai funzionare, è fatto per non funzionare. La distribuzione obbligatoria sul territorio mediante quote proporzionali alla popolazione, invece, potrebbe produrre risultati ben diversi, sempre che sia accompagnata da misure che consentano un effettivo allestimento di strutture Sprar idonee e di piccole dimensioni.
Diversamente, si creano situazioni per cui laddove si sparge la voce che stanno per arrivare degli stranieri, com’è accaduto nel recente e famoso caso di Goro e Gorino, si produce un meccanismo per cui quelli che fanno le barricate diventano delle specie di eroi salvatori della comunità. Senza giustificare i comportamenti di rifiuto, bisogna però comprendere che se, come accaduto a Conetta, in una comunità di 190 abitanti si collocano 1.300 persone all’interno di una ex base militare, questo non può essere considerato accettabile e men che meno governabile. Nello specifico parliamo di una località veramente sperduta in mezzo alla campagna, in mezzo al nulla, e quindi una situazione di questo genere, anche immaginando la migliore delle strutture possibile gestita nel miglior modo possibile, non potrebbe rappresentare un efficace gestione del fenomeno».
La vera emergenza è il passaggio a un modello strutturale in tempi veramente brevi. Al di là delle dichiarazioni di principio, è fattibile?
«Diciamo pure che è la soluzione più semplice, perché reperire piccole strutture per ristretti gruppi di persone è quanto di più semplice ci sia, anche perché viviamo in un Paese nel quale esistono ovunque sul territorio degli immobili che non sono abitati, offerti in vendita da molto tempo senza che si riescano a vendere o affittare. Non si può dire che ci sia una densità abitativa tale da non consentire di individuare luoghi nei quali collocare queste persone senza ricorrere alle caserme dismesse. Tra l’altro stiamo parlando delle peggiori caserme dismesse. Io vivo a Padova e nelle immediate vicinanze della cintura urbana ci sono caserme non più in uso che sono ancora in perfetto stato, con strutture abitative reali e servizi ancora efficienti, che però non vendono utilizzate per questo scopo. Viceversa, in luoghi come Cometta o Bagnoli di Sopra, che sono sperduti nella campagna, l’unico elemento già funzionante nel momento della consegna di queste strutture era la recinzione, perché non ci sono strutture agibili che si possano considerare come abitazioni».