Ilaria Valenzi, valdese, è responsabile dell’ufficio legale della Commissione delle chiese evangeliche per i rapporti con lo Stato (Ccers). Dopo un’estate europea passata a discutere di burkini, dopo l’ennesima legge regionale “antimoschee” approvata in Liguria, quest’intervista, nata a cavallo tra la XV giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico (27 ottobre) e l’ultima riunione della Ccers (28 ottobre), prova a fornire una panoramica sullo stato giuridico della libertà religiosa nel nostro paese, affrontando dal peculiare punto di vista evangelico tematiche – laicità, intese, otto per mille, Islam – che dominano il dibattito nazionale, spesso, purtroppo, in modo superficiale.
Parliamo del rapporto delle diverse comunità islamiche con lo Stato italiano. A cosa sono dovuti i limiti di questa relazione?
«I musulmani italiani sono organizzati in una serie molto ampia di associazioni. In linguaggio giuridico si dice che non c’è un centro di imputazione di diritti. A chi faccio riferimento? Per noi valdesi c’è la Tavola valdese, che lo stato identifica e riconosce. Però noi abbiamo la “fortuna storica” di essere una chiesa europea in uno stato europeo. “Loro” hanno un sistema diverso. Il diritto islamico non si fonda sul principio di territorialità: tu, musulmano, porti te stesso e la tua comunità ovunque tu sia. Quest’idea in un certo senso non vede i confini e gli ordinamenti. Su questa diversità di fondo si innescano poi tutte le altre, anche perché i musulmani italiani differiscono per tradizione, provenienza, origine nazionale. Da ciò deriva una vera e propria costellazione di associazioni, centri di cultura e luoghi di preghiera che fatica a coordinarsi. In alcune esperienze si cerca di fare rete. Penso ad esempio all’Unione delle Comunità Islamiche d'Italia (Ucoii), presieduto dall’imam di Firenze Izzeddin Elzir, commerciante palestinese, una figura di dialogo importantissima. All’interno del cartello Ucoii c’è il mondo, ma ad esempio non c’è la grande moschea di Roma che invece è frutto di un patto internazionale. In questo caso i membri dell’organismo che la dirigono sono in qualche modo rappresentativi delle relazioni internazionali tra l’Italia e i singoli paesi. Ma si tratta di una moschea d’élite, non del quartiere».
Se questo è il quadro, le intese con i musulmani italiani sono ancora lontane.
«Al momento, a livello di comunità islamiche, abbiamo associazioni e unioni di associazioni. Lo stato fatica a capire con chi si sta relazionando. L’unico organismo che negli ultimi anni è sembrato in dirittura d’arrivo per la stipula di un’intesa è stato la Comunità Religiosa Islamica italiana (Coreis), che però è formato da islamici italiani convertiti. Torniamo così all’importanza dell’elemento “culturale”. Un’altra realtà che si sta affermando in maniera molto forte nel dialogo istituzionale è la Confederazione islamica italiana (Cii) che ha da poco formalizzato la richiesta al governo di avvio delle trattative per la stipulazione dell’intesa».
Senza le intese, quali strumenti usa lo Stato per rapportarsi alle varie comunità islamiche?
«Il ministero dell’interno ha da sempre comitati di relazione con l’Islam. Al momento Paolo Naso è rappresentante valdese e coordinatore del “Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano”. Si tratta di un gruppo di esperti che fornisce pareri al ministero dell’Interno su come risolvere il problema di una relazione con le comunità islamiche che sia proficua anche dal punto di vista giuridico. L’ultima proposta del comitato è stata di istituire un albo degli Imam: una sorta di percorso di formazione riconosciuto dall’autorità pubblica. Un modo per conoscere i responsabili dei vari centri culturali. Un’altra proposta recente è stata quella di incrementare l’utilizzo della lingua italiana. In estrema sintesi: ciò che attiene all’elemento liturgico in arabo o nella lingua di appartenenza, quello che noi chiameremmo ”il sermone” in italiano. Accanto al Consiglio è poi istituita presso il ministero dell’interno la Consulta per l’Islam, tavolo rappresentativo delle diverse realtà associative».
Dal punto di vista della libertà di culto, limitare l’arabo alla liturgia può essere considerata una misura restrittiva?
«Direi piuttosto che si tratta di misure di cui non possiamo ancora misurare l’efficacia, pur essendo lungimirante lo sforzo che le anima, ovvero il tentativo di offrire degli strumenti alternativi per gestire le attuali lacune legislative. Purtroppo al momento il problema italiano è ben più ampio: stiamo rischiando di chiudere moschee per motivi edilizi, sulla base di leggi regionali, perché non abbiamo strumenti giuridici che tutelino la libertà di culto a livello nazionale. Con una legge nazionale le regioni non potrebbero legiferare come vogliono, utilizzando ragioni di dettaglio come grimaldello per portate avanti altri progetti politici».
Chi, dall’altra parte dello spettro politico, si oppone alle leggi delle regioni leghiste propone l’otto per mille anche all’Islam.
«Parlare di otto per mille all’Islam significa porre in maniera superficiale un problema vero e giusto. Perché come ho detto siamo lungi dalla stipula delle intese e perché quand’anche si giungesse ad un accordo con lo Stato, da parte islamica questo verrebbe siglato da un organismo assai poco rappresentativo dal punto di vista numerico. Il rischio è di trovarci con un Islam ufficiale minoritario che si relaziona con lo Stato, senza rappresentare il vasto e variegato mondo dei musulmani italiani».
L’ultima riflessione, la più difficile, è su Islam e laicità. Se «laicità» è un concetto europeo, è corretto parlare, negare o auspicare un «Islam laico»?
«Le strutture di pensiero, la cultura da cui si sviluppa il diritto nascono nella storia e le storie non sono tutte uguali. La laicità per come la intendiamo noi probabilmente è applicabile soltanto ad un Islam occidentale. D’altro canto, un Islam occidentale rischia forti rivendicazioni identitarie. Prendiamo l’esempio più noto del velo femminile. Tutto parte dalla banale osservanza di un principio religioso che trasferito in un contesto occidentale finisce per assumere valore politico: come rivendicazione identitaria di chi lo porta per essere “altro” dalla maggioranza, o come rivendicazione presunta e percepita da chi invece non porta e non comprende il velo, ma vede in quella tradizione una minaccia al suo modo di essere. Potremmo dunque concludere che l’Islam occidentale è il vero islam politico. E che proprio per questo corre il rischio di radicalizzarsi, in forme sia brutali che colte. In Europa c’è una seconda generazione d’immigrati che è stata lasciata ai margini, che imputa ai padri di avere tradito le proprie origini in nome di una società che non li ha integrati, e che quindi è spinta a tornare agli aspetti esteriori ed identitari dell’Islam. Allo stesso tempo, in occidente esiste anche un radicalismo colto, tipico di chi si è convertito. Chi non detiene un’identità dalla nascita è spinto ad affermarla in maniera più forte, per bisogno di affermazione, per compensare la sua non “autoctonia spirituale”. Guardando al problema dal punto di vista giuridico, direi che è antico come l’umanità. I principi e le norme che regolamentano il diritto privato (famiglia, coniugi, il riconoscimento della coscienza del bambino, la soggettività di diritto del bambino) nascono come principi religiosi. La radice è quella, poi in occidente la pianta diventa laica, nel mondo arabo no. Pensiamo all’istituto della dote, all’onore, a tutte le leggi da poco abolite in Italia: retaggi patriarcali di tipo prettamente religioso. Tutti i popoli e tutte le culture vivono, in tempi diversi, fasi di commistione. Nel mondo arabo abbiamo un diritto civile che evolve direttamente dal diritto religioso e un diritto civile che nasce dalla formazione di Stati ed istituzioni moderne. Due componenti storiche che si sommano, trascendono il dato spirituale, generano conflitti identitari e politici».