Il Signore sta alla destra del povero per salvarlo da quelli che lo condannano a morte
Salmo 109, 31
Egli non si vergogna di chiamarli fratelli
Ebrei 2, 11
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
Così scriveva il soldato Giuseppe Ungaretti il 15 luglio 1916, dal fronte, presso Mariano del Friuli, in piena guerra. Sconosciuti, gente di ogni risma, di ogni provenienza dall’Italia di allora, solo da pochi decenni unita. Estranei, non meno di quanto lo fosse il «nemico», lo «straniero» austriaco, contro cui essi combattevano. Eppure, risuona fra loro la parola «fratelli». Una parola che germoglia, che fa germogliare, che, da quell’accozzaglia di soldati accomunati soltanto da una divisa e dal destino di morte che essa recava con sé, fa sbocciare, contro ogni evidenza, uomini vivi.
Estranei. Così dovevano essere per Gesù i giudei per i quali moriva. Non certo estranei secondo la carne, perché giudeo era anch’egli: appartenevano allo stesso popolo. Ma estranei in senso spirituale, estranei perché peccatori e quindi, anche quando pii, ostili a Dio. Eppure Gesù li chiama «fratelli», non si vergogna di loro, solidarizza. Muore per loro e, attraverso essi, per tutti e tutte noi.
Ci chiama fratelli e non se ne vergogna. E, chiamandoci così, ci fa sbocciare, ci fa nascere uomini e donne vivi, ci rende la vita – noi che eravamo un’accozzaglia di morti, destinati alla morte – e ci rende la nostra umanità. Ci rende degni di essere, come lui, figli di Dio, figli del suo stesso Padre.
Quale miracolo accade, grazie a una parola! Un miracolo che siamo chiamati a partecipare ad altri e ad altre, un miracolo che può rendere la vita e l’umanità a tutto il genere umano. Un miracolo che spesso noi, talvolta proprio qui in Italia, non sembriamo più capaci di comprendere né di accogliere, vergognandoci di rendere l’umanità a tanti, stranieri e italiani, che ne hanno disperatamente bisogno.