Un resistente, un professore, un fiorentino, un socialista, uno storico. Ma prima di tutto un protestante. È ricchissimo il profilo di Giorgio Spini tracciato dai dieci studiosi che su invito del Centro di documentazione metodista (Cdm) il 19 ottobre sono convenuti in Roma, presso il rettorato dell’Università La Sapienza. Una polifonia di voci, scientifiche nei confronti del personaggio e della sua opera ma non prive d’affezione verso la persona, conosciuta e per questo ricordata con trasporto vero.
«Ringrazio il mio Dio del ricordo che ho di Giorgio Spini». Così, parafrasando Filippesi (1, 3), il presidente del Cdm Massimo Aquilante ha dato il benvenuto a relatori e uditori, tra i quali sedevano due dei figli, Debora e Valdo. Dopo i saluti di rito del rettore Eugenio Gaudio e della direttrice del Dipartimento di Storia culture e religioni Emanuela Prinzivalli, per la quale il convegno Spini «inaugura le celebrazioni del nostro dipartimento per il Cinquecentenario della Riforma», l’onore e l’onere di aprire i lavori è toccato a due docenti «di casa». Laura Ronchi ha relazionato sullo Spini storico della Riforma – «quell’evento ch’egli metteva a fondazione del mondo moderno, davanti e non di fianco al Rinascimento» – mentre Giuseppe Monsagrati ha analizzato lo Spini storico del Risorgimento, «un periodo che prima di costituire oggetto di studio, per Spini è stato esperienza formativa». Monsagrati ha ricordato come «la coscienza critica di Spini si sviluppi tra la fine dello Stato liberale e la deriva autoritaria fascista», una condizione anagrafica che s’intreccia alla fede evangelica, sulla retta protestantesimo-antifascismo-liberaldemocrazia. Similmente a quanto sostenuto dal figlio Valdo, che salutando la platea aveva ricordato come l’antifascismo azionista paterno fosse stato «prima religioso e poi politico», anche per Monsagrati Spini avrebbe derivato l’essenza delle proprie convinzioni politiche dalla «natura democratica dell’evangelismo»; una posizione, quella di chi procede «dalla libertà di culto al socialismo», tale da renderlo uno studioso assolutamente peculiare, privo di scuole di pensiero ma ricco di occasionali apparentamenti lungo il binomio Protestantesimo-Stato liberale. Insomma, un intellettuale tra le due guerre giammai politicamente tormentato, perché «in serena coerenza di pensiero e fedeltà a se stesso». Concetti, questi, ripresi in parte da Eugenio Biagini dell’Università di Cambridge, che con schematismo e asciuttezza sconosciuti al di qua della Manica ha proseguito sul rapporto tra evangelismo e politica, tra protestantesimo e laicità, mettendo a fuoco il nesso che inevitabilmente unisce le minoranze ai concetti di democrazia e libertà: «Per Giorgio Spini la religione minoritaria democraticamente organizzata era un fattore autonomo di rinnovamento religioso, culturale, sociale e politico. Per questo egli fu uomo della Resistenza e mediatore con lo Stato, con le istituzioni ed il mondo cattolico». Ma se Spini fu pensatore complesso e storico rigoroso, questo non andò mai a detrimento delle sue straordinarie doti di divulgatore. Ha fatto luce su questo aspetto Marcello Verga dell’Università di Firenze, che dipanando il filo della ricca manualistica prodotta per licei e università non ha rinunciato ad un affondo sul presente che dà da riflettere: «Oggi a scuola non ci si divide più tra chi studia su Spini, su Saitta o su Villari, i ragazzi leggono libri prodotti da esperti di comunicazione».
La sessione pomeridiana, ricca di altrettanti interventi, si è aperta con il contributo dell’«allievo» Franco Cardini, che in qualità di concittadino si è concentrato sullo «Spini fiorentinista». Da La bottega delle meraviglie, romanzo giallo d’ambientazione fiorentina uscito dalla penna di uno Spini appena ventenne, all’ormai celebre lezione su Michelangelo Buonarroti, ripresa da RaiTre nel 1982 e riproposta lo scorso gennaio dal comune di Fiesole, per i dieci anni della scomparsa. Commosso il ricordo di Francesco Margiotta Broglio, collega dell’Università di Firenze – «non posso raccontare quanto ci divertivamo alle sedute di laurea» – che ha ripercorso la «stagione delle intese», fase fondamentale dello sviluppo dei principi costituzionali nel tessuto repubblicano: «una primavera, seguita al lungo inverno ’48-’83, di cui Spini fu protagonista». Medesimo trasporto – «il ricordo di Spini per me non può essere mero esercizio storiografico» – ma diverso tema per Massimo Rubboli dell’Università di Genova, che ha ricostruito lo Spini biografo della Giovane America. «Quando era professore a Messina tenne dei corsi di Storia americana, sull’origine coloniale degli Stati Uniti. A ben vedere – specifica lo studioso – studiava l’America perché gli interessava l’Inghilterra e la sua civiltà. E dunque la relazione tra calvinismo europeo e puritanesimo americano». Se anche per Massimo Rubboli «la speranza di socialismo alimentò tutta la sua vita», per Paolo Naso, che ha chiuso i lavori riflettendo proprio sulla «sfida dell’utopia socialista», il socialismo di Giorgio Spini «era un socialismo antifascista, di libertà, e dunque “confessionale” oltre che politico». Un socialismo dell’uguaglianza ma rivendicante «l’autonomia della fede che, come accaduto alla chiesa confessante tedesca di Barmen, forte della parola di Dio riconobbe come falsa l’autorità della dittatura e dello stato totalitario».
In sintesi estrema, la giornata di studio di mercoledì scorso ha messo a fuoco l’essenza laica, l’impegno sociale e la visione profetica di «uno storico evenemenziale con una grande passione per la Bibbia» – una definizione, questa, quasi «sfuggita» a Monsagrati durante il suo intervento, ma estremamente fotografica. Uno storico, dunque, protestante. Fu forse, anche e soprattutto quest’appartenenza teologica e di pensiero – «vissuta giammai come minoranza, ma come speranza di conversione», conferma il figlio Valdo – a fare di Giorgio Spini un rigoroso storico di più epoche, di correnti storiche non sue. Uno «storico credente aconfessionale».