In prima linea è un progetto che parla molte lingue: quello dell'attualità dei paesi colpiti da conflitti, la forza evocativa dell'immagine e la realtà delle donne reporter di guerra. L'ideatrice è Andreja Restek, giornalista e fotoreporter nata in Croazia che vive a Torino; ha fondato e dirige APR News, quotidiano on line che segue e monitora il fenomeno del terrorismo e i gruppi terroristici nel mondo. Per il suo lavoro ha ricevuto molti premi nazionali ed internazionali.
Com'è nato il progetto?
«Spesso nell'immaginario collettivo il lavoro di fotoreporter di guerra è fatto dagli uomini ma sono molte le donne impiegate in questo campo. Spesso, su diversi fronti, incontro le mie colleghe e così, circa un anno fa, è nata l'idea di volerle portare nella mia città adottiva, Torino. È la prima volta nel mondo che le donne fotoreporter si uniscono per un progetto comune».
Quali sono le difficoltà nel comunicare quello che si sta vedendo attraverso uno scatto?
«Certo non è facile e ognuna lo fa in modo diverso, però noterete che le differenze sono soprattutto culturali perché proveniamo da tanti stati diversi e abbiamo diverse sensibilità. Certo è difficile con uno scatto mostrare quello che succede nei paesi colpiti dalla guerra.
Non basta fare begli scatti, bisogna essere molto preparati, conoscere bene la geopolitica del paese dove si va, non è sufficiente essere semplicemente bravi fotografi. Si deve sempre tenere presente che, oggi, giornalisti e fotografi sono l'obiettivo per diversi criminali o gruppi terroristici; come si sa sono stati rapiti e uccisi diversi colleghi. In queste situazioni non si ha tempo di mettere in posa le persone, quando i cecchini sparano bisogna scattare e non c'è tempo di prepararsi. Bisogna avere in testa l'immagine della situazione a 360 gradi con mille alternative e variabili diverse: variabili di fuga, variabili di scatto... In altri casi è stato possibile creare in loco una situazione di fiducia per poter parlare con le persone che si voleva fotografare. Avere la fiducia dalle persone è un lavoro difficile e bisogna essere in grado di dimostrare rispetto: quando una donna ti racconta di essere stata violentata, dietro c'è un lavoro veramente lungo che poi porta a poter fare questo scatto. Ecco, quello che facciamo è soprattutto portare rispetto».
Com'è il percorso espositivo?
«Troverete 70 immagini di quattordici fotoreporter diverse, tra cui Camille Lepage che due anni fa è stata uccisa nella Repubblica Centrafricana a soli 26 anni. Ci tenevamo che ci fosse anche lei. Ognuna di noi ha presentato un lavoro e ognuna racconta una delle situazione che aveva più a cuore. Alison Baskerville, ex sergente della Royal Air Force, racconta l'Afghanistan, io parlo di Siria e Ucraina, Crimea e Sierra Leone, Matilde Gattoni parla delle donne siriane rifugiate in Libano. Ognuna ha un tema diverso e vi porta in un luogo colpito dalla guerra o in situazione di emergenza. Il percorso è stato pensato anche per le scuole perché è molto importante parlare ai ragazzi di cosa accade nel mondo».
Che differenza fa essere donne?
«Noi che facciamo questo lavoro non ci sentiamo diverse dagli uomini. Certo, ci sono alcune situazioni dove devi lavorare molto sulle relazioni prima di poter scattare le fotografie. Per esempio mi è capitato ad Aleppo che i colleghi uomini potessero fare le foto e io dovessi stare ferma; non c'era una motivazione logica del perché, semplicemente perché ero una donna. Però dopo aver conquistato la fiducia ho potuto fare tutte le foto che volevo e anche più degli uomini. Ma ribadisco che noi non ci sentiamo diverse».