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Velo o non velo, il corpo non è mai neutrale

Il dibattito sul burkini richiede una riflessione profonda sul concetto di laicità e su quello della neutralità di uno spazio o di un corpo. Intervista con l’antropologa Sara Hejazi

Alla fine della scorsa settimana Consiglio di Stato francese ha sospeso l’ordinanza del comune di Villeneuve-Loubet, a metà strada tra Nizza e Antibes, che aveva deciso di vietare l’accesso alle spiagge a chi non fosse stato vestito con «una tenuta corretta, rispettosa del buon costume e del principio di laicità».

Applicato principalmente al cosiddetto burkini, il costume da bagno integrale considerato dalla destra francese un simbolo del fondamentalismo jihadista, nelle ultime settimane il provvedimento era stato adottato in termini molto simili da circa 30 sindaci in tutta la Francia con la motivazione di prevenire rischi per l’ordine pubblico. Secondo il Consiglio di Stato, però, il pericolo evocato dagli amministratori locali non è motivato, e per questo il divieto va rimosso.

Se dal punto di vista giuridico la questione è chiusa, lo stesso non si può dire per quella politica e culturale: le ordinanze dei sindaci, infatti, hanno spinto tutti i partiti francesi a prendere posizione, con la destra dei Républicains e il Front National favorevoli al divieto e i socialisti divisi al loro interno. Il primo ministro Manuel Valls ha affermato venerdì che «il dibattito sul burkini è fondamentale per una Francia secolare» e che «[il burkini] è l’affermazione dell’islam politico nei luoghi pubblici». Affermazioni che, secondo l’antropologa Sara Hejazi, sono vere, ma richiedono una riflessione in più.

Perché con il burkini si porta l’islam politico nei luoghi pubblici?

«Bisogna ripartire dal ragionamento proposto oltre trent’anni fa dal filosofo francese Michel Foucault. Il suo discorso parte dalla riflessione sul fatto che da un certo punto della storia dell’Occidente in poi, cioè dall’Ottocento, il corpo diventa un terreno politico, si fa e si scrive sul corpo e questo, in quanto elemento scritto, diventa un discorso politico.

Tuttavia, questo vale per tutti i tipi di vestiario: dagli anni Sessanta in poi, ogni volta che si è scritto un messaggio politico, soprattutto sul corpo femminile, si è fatto attraverso un abbigliamento. Pensate alla minigonna, per esempio, o al bikini stesso: girava in questi giorni sui social la foto di questa ragazza a Rimini in bikini che nel 1957 veniva multata perché il suo costume era troppo succinto. Ecco, è politico in questo senso, però quanto lo è coscientemente? Cioè, quanto una donna musulmana emigrata in Francia sa che questo è uno statement politico? È consapevole la donna che utilizza il burkini o l’hijab, di stare facendo un’affermazione politica?»

È necessario provare a capire chi scrive politici sul corpo della donna. È qualcosa di eterodiretto?

«Assolutamente sì. In una società complessa come la nostra le forze sono multiple, quindi si parte dal messaggio commerciale, dal marketing, secondo cui la donna mainstream in Occidente dev’essere formosa ma magra, con il bikini o quasi nuda ma allo stesso tempo deve avere una morale sessuale di un certo tipo. Questa scrittura di un messaggio politico non arriva soltanto dall’alto, ma anche dal basso, perché ci sono movimenti come quelli delle periferie urbane che decidono anche i trend, le mode e gli stili. Basti pensare a quando è nato il punk».

In effetti il velo non è stato sempre utilizzato dalle donne musulmane. Penso per esempio alle palestinesi, che fino a vent’anni fa quasi non lo indossavano.

«Il discorso è di tipo spirituale, perché il velo non è obbligatorio per l’islam, non sta scritto da nessuna parte, e quindi per una musulmana credente è una scelta di tipo spirituale, tolto il caso in cui sia imposto da un governo, come in Iran, o dalla famiglia. Oltretutto, se parliamo di Iran lo stacco è ancora più forte: è solo dal 1982 che viene imposto e fino al 1933 veniva strappato, esattamente come è successo nelle spiagge della Costa azzurra in questi giorni. Nella Persia dello Scià, infatti, era considerato un simbolo di arretratezza culturale, perché in ossequio all’alleanza con la Germania nazista voleva una nazione moderna sul modello tedesco.

Negli anni Sessanta e Settanta, poi, il velo ha cominciato a essere politicizzato, sia in Occidente sia nei Paesi musulmani: la scelta tra velarsi o non non velarsi è un vero dilemma, perché nasce dal confronto con questo Occidente che impone il tema del corpo femminile. La modernità si accompagna con l’idea di una donna che si sottrae a un certo tipo di abbigliamento, di postura e anche di ruolo sociale, per cambiarlo, poi come lo cambia è tutto da vedere. Secondo alcuni, le musulmane politicizzate che indossano questo velo perché stanno facendo uno statement politico con coscienza, stanno anche compiendo una critica a un certo tipo di femminismo, passato attraverso gesti come indossare una minigonna o bruciare un reggiseno, atti visti dalle donne musulmane come estranei alla propria storia. Tuttavia, quante di loro stanno veramente facendo questo tipo di discorso? Piuttosto, viene da dire che quelle che utilizzano il burkini lo fanno per una questione di abitudine: non sono abituate a stare nude sulla spiaggia, ma la complessità del discorso è aumentata dal fatto che l’islam oggi in Occidente è veramente una religione malfamata, nel senso che è la meno compresa, più stereotipata e soprattutto più maltrattata dai media».

Questo dibattito avrà la dimensione di “bolla” o è qui per rimanere?

«Lo troveremo sempre, perché la querelle a proposito del velo non è una novità. Ne parlava già Mondher Kilani nel 1997, perché da molti anni anche le scienze sociali stanno cercando di capire che cosa sia veramente la laicità: è l’addizione e lo scambio di tante differenze o è un modo di vivere omologato che viene poi imposto a tutte le forme di diversità? Non è facile neppure per noi in Occidente definire questa laicità: nelle scienze sociali si parla di superdiversity per dire che questo è il momento in cui tutte le differenze vengono addizionate in uno spazio neutro. Eppure lo spazio non è mai neutro, lo spazio ha una storia, la Francia ha una storia precisa e ha un’identità da difendere, e questa contrapposizione tra l’identità francese e il velo porta a una politicizzazione ulteriore del discorso. Penso che andrà avanti a lungo».

Tutto fa pensare che oggi il velo sia un simbolo destinato a resistere a ogni spinta.

«Sono tornata da poco dall’Iran, dove ho portato un gruppo di italiani, e chi era con me si è spesso stupito del fatto che un Paese così così moderno, così aperto, dove le donne possono studiare all’università e avere accesso a posti di lavoro ai vertici, imponga il velo. Io penso che per una repubblica islamica il velo sia l’ultima cosa che si possa lasciar andare: l’Iran sta lasciando trasformare il suo paese in tutti gli aspetti, ma sul velo non molla e non mollerà».

Come mai, secondo lei?

«Perché il velo è un elemento visibile e poi perché il corpo della donna rimane oggi, in Occidente e in Oriente, uno dei terreni più importanti della costruzione delle identità nazionali. Cosa vogliamo fare della donna oggi? È difficile dirlo anche in Europa. Pensiamo al matrimonio: inteso nel suo senso più classico, oggi non serve più a nulla, dal momento che la donna è stata tolta dall’obbligo di procreare, dall’obbligo di essere moglie e madre. Ebbene, il tema della costruzione di genere e dei nuovi tipi di famiglia sarà cruciale e il velo è totalmente intrecciato a questo tipo di discorso. Ci vorranno decenni prima di venirne a capo, specie perché torniamo al discorso della spiritualità: se il velo ha a che fare con la spiritualità cosa dice uno stato laico del fatto di far vedere un tipo di spiritualità nello spazio pubblico, visto che ormai intendiamo la spiritualità come una scelta privata, intima, che non deve vedersi? Inoltre, dobbiamo chiederci se sia così per tutte le religioni: per esempio, sulla kippah ebraica non c’è stato un dibattito nemmeno lontanamente paragonabile».

È possibile rimanere neutrali?

«No, questa è una grande falsità della narrazione contemporanea. Non si può essere neutrali perché il corpo e lo spazio non lo sono, perché abbiamo tutti una storia molto precisa e anche una storia dei rapporti con l’altro e con l’islam in particolare che non possiamo fingere di ignorare».

Immagine: By Giorgio Montersino from Milan, Italy - cool burkini, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9437456