Laicità non significa neutralità
23 agosto 2016
La polemica sul burkini in Francia veicola una concetto falso di laicità come «normalità della maggioranza»
Non ci sono più i dibattiti da spiaggia di una volta. Oggi il sistema dei media ci obbliga a parlare di «burkini» in salsa «scontro di civiltà» perché bisogna per forza suscitare rabbia, scandalo e paura. Il pretesto ce lo danno alcuni comuni costieri d’Oltralpe, Cannes in testa, i quali, in pieno stato d’emergenza, hanno ben pensato di proibire un costume da bagno integrale femminile – il burkini, appunto.
Diversi commenti apparsi di recente criticano la misura in una prospettiva di genere: fino a ieri si considerava inopportuno l’abbigliamento troppo corto; oggi anche il troppo lungo può essere sanzionato dalla pubblica autorità. L’impressione è che diversi modelli culturali si confrontino utilizzando il corpo femminile come campo di battaglia. Tanto chi copre quanto chi scopre ritiene legittimo regolare l’abbigliamento della donna, con conseguente limitazione della libertà individuale.
C’è però un altro aspetto su cui vorrei soffermarmi: il divieto in questione viene giustificato dal Comune di Cannes in base al principio costituzionale della laicità. La base legale del provvedimento è un atto comunale che vieta l’accesso alle spiagge a chi non abbia un abbigliamento “corretto, rispettoso del buon costume e della laicità”. Si tratta d’un aspetto che merita una riflessione. Sono infatti convinto che l’interpretazione del principio di laicità alla base del provvedimento sia sbagliata e arbitraria.
Per iniziare, il principio di laicità non richiede all’individuo un atteggiamento imparziale rispetto alla religione. Se esso implica che lo Stato mantenga un atteggiamento di equidistanza ed imparzialità rispetto alle diverse confessioni e credenze religiose, gli individui hanno invece tutto il diritto di essere di parte, di abbracciare la fede che preferiscono, e di dimostrare la loro appartenenza indossando ciò che vogliono. La laicità non produce insomma alcun obbligo individuale alla neutralità. Anzi, storicamente, la separazione tra chiesa e Stato è stata concepita come garanzia di pluralismo religioso e libertà di culto. L’imparzialità dello Stato è dunque funzionale alla libera “parzialità” degli individui, alla libertà di avere convinzioni soggettive e di comunicarle agli altri, anche mediante l’esposizione di simboli.
Ora, se quest’idea ha potuto essere deformata fino al punto di fondare il divieto di indossare un abito avente una connotazione religiosa, ciò è probabilmente dovuto a quel processo di mistificazione denunciato a più riprese dal sociologo e storico Baubérot: oggi, nel discorso politico e dei media, quando si parla di laicità, il “pubblico” non è più identificato con lo Stato, ma con la “sfera pubblica”, ossia lo spazio in cui le persone interagiscono, definito in opposizione alla nozione di “sfera intima”. In tale prospettiva, la laicità non impone più l’equidistanza dello Stato, ma la neutralità degli individui rispetto alla religione, con conseguente obbligo di occultare ogni espressione visibile della propria religiosità. Si passa da un principio posto a garanzia del pluralismo all’imposizione di una “neutralità” di Stato coincidente con una sorta di secolarizzazione consumista di mercato. Invece di tutelare le minoranze, questa “laicità falsificata” impone per legge la concezione di normalità della maggioranza.
Questo processo si spiega in parte con la tendenza a leggere il rapporto tra religioni e Stato in chiave di “scontro di civiltà”, ossia seguendo la logica del “noi/loro” piuttosto che una prospettiva pluralista. Le società occidentali vengono quindi descritte come “società laiche”, in opposizione alle società dei “paesi islamici”. In quest’ottica, si fa coincidere la laicità con la secolarizzazione della società. Si tratta tuttavia di un equivoco: le nostre società non sono “laiche”, ma pluraliste grazie alla laicità dello Stato, il che è ben diverso!
L’opposizione noi/loro spiega anche l’applicazione selettiva del principio di laicità che soggiace al divieto del burkini. Un’applicazione non discriminatoria dell’ordinanza del Comune di Cannes obbligherebbe infatti a sanzionare chiunque in spiaggia ometta di neutralizzare la propria religiosità. Eppure da sempre suore, cori religiosi, e colportori vari scorrazzano per i lungomare europei, senza che ciò abbia mai costituito un problema particolare. È evidente che il divieto in questione è finalizzato a colpire il recente diffondersi del burkini, un simbolo collegato alla religione islamica, in una fase storica di forte ostilità di una parte della società verso le persone di fede musulmana. E mentre ci si affanna a trovare criteri per distinguere il burkini dall’abito monacale o dalla croce greca e giustificare così l’applicazione asimmetrica del principio di laicità, l’unico criterio convincente sembra essere la distinzione “noi/loro”: preti e suore sono accettabili perché sono i “nostri”, il burkini è degli altri, e va vietato.
Con ciò, non voglio ignorare gli argomenti di chi vede in certi tipi d’abbigliamento il simbolo dell’oppressione della donna in determinati contesti culturali. Eppure, penso che neppure questo argomento possa giustificare il divieto di cui parliamo (e del resto non chiederei allo Stato di proibire i testi cristiani che postulano la sottomissione della moglie al marito, o i monasteri di clausura). Per iniziare, non si può presumere che le donne che portano il burkini siano tutte prive della possibilità o della capacità di scegliere liberamente cosa indossare. Sarebbe paternalistico imporre una tenuta che riteniamo meno lesiva della dignità personale contro la volontà delle persone interessate. Ma anche a prescindere da questo, non si comprende l’impazienza di sanzionare e mettere alla gogna le presunte vittime del sistema che si intende combattere. Non si sconfigge il sistema delle caste multando i paria, o lo sfruttamento della prostituzione sanzionando chi è costretto prostituirsi: lo stesso vale per la violenza di genere ed il maschilismo di varia matrice. È evidente che la soluzione non passa per il divieto di un certo abbigliamento e la punizione di chi non lo rispetta, ma consiste nel rendere tutte le donne davvero libere di scegliere, garantendo sicurezza personale e sostegno (economico, psicologico, legale, ecc.) a chi rischia di pagare un caro prezzo per la propria autodeterminazione. Di questo, però, i fautori del divieto e dello scontro di civiltà non parlano.