Ci stiamo per lasciare alle spalle un’estate carica di angoscia, costellata di attentati compiuti invocando il nome di Dio. È accaduto in Belgio, in Germania e in Francia, a pochi chilometri dal confine italiano ma anche a Rouen in una chiesa cattolica dove è stato trucidato un anziano parroco impegnato nel dialogo con i musulmani. Di fronte a questi scempi, è naturale che crescano sentimenti di sconcerto, paura, rabbia. Che cosa sta succedendo? Che cosa abbiamo fatto per subire una guerra blasfema che non abbiamo dichiarato e della quale non comprendiamo le ragioni? Come reagire alla violenza che ci sorprende negli angoli più intimi e protetti? Domande legittime alle quali troppo spesso si danno risposte sommarie che semplificano scenari complessi e – orecchiando la più scontata propaganda xenofoba – pretendono di spiegare tutto con la violenza insita nel Corano, il naturale fanatismo dei musulmani e lo spirito di conquista dell’islam. Tutto questo non solo non ci aiuta a comprendere la tragedia che si rappresenta intorno a noi ma ci mette su una strada sbagliata e senza vie d’uscite.
Lo affermiamo sulla base di tre considerazioni. La prima è che siamo testimoni di una delle fratture più violente che la umma (comunità) islamica abbia mai vissuto dai decenni seguiti alla morte del Profeta. Già allora gli scontri tra diverse fazioni per la guida spirituale dei musulmani determinarono la fitna, una lunga guerra fratricida tra diverse anime dell’Islam. Oggi, la frattura della faglia islamica non è dottrinale ma geopolitica: la guerra unilateralmente dichiarata dagli islamisti è in primo luogo rivolta contro le leadership politiche di paesi «islamici» giudicate immorali e decadute perché incapaci di interpretare il vero messaggio coranico, colpevoli di autoritarismo e corruzione endemica. I numeri non dicono tutto ma la somma dei musulmani uccisi dal terrorismo islamista è assai superiore a quella delle vittime occidentali o appartenenti a altre religioni. In questa guerra fratricida i «crociati» diventano obiettivi strategici sia perché assai più «mediatici» sia perché offrono una sponda politica, economica e militare all’Islam tradizionalista ma non radicalizzato né proteso alla ricostruzione del califfato.
La seconda considerazione che delegittima l’idea di uno scontro tra l’Islam – tutto l’Islam – e il «mondo crociato» come espressione dell’Occidente sta nel fatto che, mai come negli ultimi mesi, abbiamo visto leader musulmani e organizzazioni islamiche denunciare senza ambiguità l’eresia del terrorismo islamista. È accaduto con le dichiarazioni di Ahmad Al-Tayyb, «grande imam» di Al Azhar e cioè del centro mondiale dell’Islam sunnita; così come con la posizione assunta dal Consiglio francese del culto musulmano o, in Italia, dall’Unione delle comunità islamiche, dalla Confederazione islamica e dalla Comunità religiosa islamica che, come i fratelli d’oltralpe, domenica 31 luglio hanno voluto rendere omaggio ai cattolici visitando varie chiese e talora pregando insieme a loro. In questi mesi è anche accaduto che le comunità islamiche abbiano denunciato alle autorità predicatori dell’odio e reclutatori dell’Isis. È un fatto importante e strategico nel contrasto alla radicalizzazione che, diversamente da altri, il governo italiano ha inteso valorizzare accelerando il dialogo e il confronto con varie associazioni di musulmani.
La terza considerazione sta nelle biografie di vari attentatori. Alcuni di loro hanno passato l’ultimo mese di ramadan – giugno scorso! – da «miscredenti», contenti di bere alcolici, fare uso di droghe e frequentare donne occidentali. Poi, nel giro di qualche settimana, una rapida radicalizzazione, il contatto con qualche reclutatore in grado di fornire armi e supporto logistico e quindi l’organizzazione di un attentato plateale. L’analisi comparativa delle biografie di questi attentatori non spiega tutto ma dice molto: immigrati di seconda o terza generazione, diversamente dai loro padri e dai loro nonni del tutto disillusi dalla chimera di una piena integrazione, apparentemente inseriti nella società ma in realtà marginalizzati e discriminati, con una serie di piccoli reati alle spalle, lontanissimi dall’impegno politico e dall’idea di un cambiamento possibile della qualità della loro vita, più capaci di comunicare tramite i social media che costruendo relazioni vere e autentiche.
Queste biografie ricorrenti e la crescente velocità della radicalizzazione islamista suggeriscono l’idea che questi giovani vivano e perseguano una sorta di «islamizzazione del disagio». Una superficiale retorica coranica diventa così la bandiera che pretende di spiegare e conferire dignità al gesto distruttivo di chi rifiuta tutto ciò che lo circonda, ogni speranza e persino la sua vita. Senza nulla concedere a un pericolo sociologismo giustificazionista, dobbiamo però assumere che per troppi giovani l’islamismo radicale, il mito del califfato e persino l’arruolamento nelle sue fila diventano i contenitori di un disagio che non trova altri sbocchi.
Se queste considerazioni hanno un senso, ha ragione papa Francesco a dire che non siamo testimoni e vittime di una guerra tra il cristianesimo e l’Islam. Neanche oggi il mantra ricorrente dello «scontro di civiltà» riesumato dalla ruvida campagna elettorale di Donald Trump, trova verifiche e conferme. Viviamo piuttosto una frattura all’interno delle civiltà, nel caso specifico nell’Islam e nell’area geopolitica in cui è cresciuto e si è sviluppato. Ma se non è una guerra «di religione», questo non significa che le religioni siano assolte dalle loro responsabilità. Di fronte ai predicatori dell’odio che agiscono in nome di Dio, servono credenti pronti a sminare le coscienze gridando che Dio può essere solo amore misericordioso e compassionevole. Finché c’è chi uccide nel nome di una religione, avremo bisogno di uomini, donne e comunità capaci di vivere, testimoniare e insegnare la grazia e l’amore di Dio.