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Un valdese nel Comitato Centrale del Cec

Si sono da poco conclusi i lavori del Comitato Centrale del Cec. L’intervista al pastore Michel Charbonnier, neoeletto nell’esecutivo

A seguito delle dimissioni di Valeria Fornerone, il valdese Michel Charbonnier, pastore della Chiesa metodista di Bologna e Modena, è divenuto membro del Comitato Centrale del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec). La nomina è stata ratificata durante l’ultimo incontro dell’organo esecutivo, riunitosi a Trondheim dal 22 al 29 giugno. Cogliamo l’occasione per un’intervista, nel tentativo di comprendere meglio struttura, fini e funzionamento dell’organizzazione ecumenica.

Diamo spesso conto delle iniziative del Cec in giro per il mondo, il più delle volte attraverso la sua voce più autorevole, quella del Segretario generale Olav Fykse Tveit. Ma similmente a quanto vale per altre organizzazioni di respiro mondiale, anche il Cec è ben più complesso di una voce sola. Ci può spiegare, lei che adesso è membro dell’organo esecutivo Cec, come lavora «il gigante»?

«Tanto per cominciare, il movimento ecumenico è più antico dell’istituzione mondiale che oggi ne rappresenta le istanze. Alla pari di altri organismi ecumenici, il Cec come lo conosciamo oggi nasce subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Un indizio della sua data di nascita lo possiamo ricavare dalla denominazione del suo organo esecutivo: “Comitato Centrale”, un’espressione che disorienta chi si avvicina per la prima volta a quest’organizzazione, perché storicamente appartiene alla struttura dei partiti comunisti. Sgombriamo il campo dall’errore più banale: è evidente che si tratta di un’omonimia casuale, anche se è probabile che oggi un organo esecutivo verrebbe chiamato diversamente. L’Assemblea del Cec si riunisce ogni sette-otto anni (l’ultima volta fu nel 2013 a Busan, in Corea del Sud). All’assemblea partecipano i delegati delle chiese membro (oggi all’incirca 700 persone) le quali eleggono un Comitato Centrale di 150 persone. Io sono membro di questo organismo. Il Comitato Centrale è l’organo esecutivo, e si riunisce ogni due anni; tra un incontro e l’altro lavora invece un Comitato esecutivo più ristretto di 25 persone. Assieme al Segretario generale, il Comitato esecutivo fornisce gli indirizzi agli uffici e allo staff, in vista delle discussioni e delle decisioni che verranno prese nel Comitato Centrale successivo. Se si guardano le foto d’epoca si nota che inizialmente il Cec era composto in maggioranza da uomini bianchi e ordinati. Negli ultimi decenni esso invece esprime tutta la varietà geografica e confessionale del Consiglio, le diverse facce delle chiese membro: giovani e anziani, uomini e donne, laici e pretati, persone con disabilità, popolazioni indigene. Si tratta di un cammino ancora incompleto, ma bisogna ammettere che ci sono stati enormi miglioramenti».

Qual è il metodo decisionale? Come si vota all’interno del Cec?

«Questo è interessante. Dalla fine del secolo scorso l’Assemblea del Cec non vota a maggioranza ma decide attraverso il metodo del consenso. Attraverso l’utilizzo di segnali visivi, l’Assemblea può esprimere il proprio apprezzamento o il proprio disappunto a ciò che viene detto. Chi modera ha il compito di portare la discussione verso una decisione il più unanime possibile. Se necessario si può ricorrere al voto a maggioranza, ma in casi specifici e ben definiti. Le minoranze che su ogni tema, è naturale, rimangono in Assemblea, hanno la possibilità di registrare la propria posizione. Lo stesso avviene in occasione della nomina del Comitato Centrale. Le liste del candidati vengono composte con i criteri di cui sopra, discusse, emendate e infine approvate per consenso dall’Assemblea».

L’ultimo Comitato Centrale si è appena concluso a Trondheim, in Norvegia. Di cosa avete discusso? E cosa avete deciso?

«È stata come sempre una settimana molto intensa, perché le aree di lavoro del Cec sono innumerevoli. Le grandi linee programmatiche sono quelle affidate alle “plenarie tematiche”. Al pari dell’Assemblea, il Comitato Centrale si dà dei temi prioritari e li affida a gruppi di lavoro detti “plenarie”, che segnano il ritmo dell’incontro. A queste si aggiungono i documenti che provengono dalle aree di lavoro del Consiglio nella sua interezza. Le plenarie tematiche di quest’anno sono partite dal cosiddetto “pellegrinaggio di pace e giustizia”; si è scelto di utilizzare l’immagine del pellegrinaggio per dare l’idea del movimento, per ribadire che vogliamo andare nella direzione di una “pace giusta”, un concetto partorito dal Cec».

Esiste dunque una «pace ingiusta»?

«Sì, se intesa come assenza di guerra mantenuta con l’oppressione o il controllo di una parte sull’altra. Ma la nostra riflessione non si è esaurita qui. Abbiamo elaborato un documento sul traffico e la tratta di esseri umani, sul dislocamento forzato delle persone, sui diritti d’asilo… Immagini 150 persone riunite per una settimana ma con compiti diversi. C’è chi lavora sui comunicati stampa dell’attualità, dalla Brexit alla solidarietà con Puerto Rico, giusto per fare un esempio; altri gruppi invece lavorano sugli ambiti di riflessione del Consiglio: religione e violenza, conflitto in Medioriente. E poi c’è chi lavora sulle nomination, ovvero sulle liste di candidature, tenendo in considerazione tutte le possibili variabili per eleggere il nuovo Comitato esecutivo. Io ho lavorato in quest’ultimo gruppo. Ci si divide un po’ per accordo, tenendo presente il fatto che siamo tanti e quindi non sempre si può fare quello che si preferisce».

In quali lingue comunicate tra delegati?

«Il Cec lavora nelle sue quattro lingue ufficiali: l’inglese, il francese, il tedesco e lo spagnolo».

A suo giudizio qual è il messaggio più forte di quest’anno?

«È stata molto significativa la plenaria su “religione e violenza”, nella duplice accezione di violenza contro la religione e violenza su base religiosa, in altri termini sulla “violenza delle religioni.” Su questo punto è stato elaborato e approvato un documento molto corposo e interessante che sarà inoltrato a tutte le chiese membro perché lo studino, lo commentino e lo incorporino nella loro prassi. La principale modalità di relazione tra il Cec e le chiese membro è proprio questa: il Cec porta avanti un lavoro a livello ecumenico e lo offre alla riflessione delle sue componenti, con l’idea che ognuno, nel proprio contesto, lo possa rendere vivo».

Una notizia, quantomeno per noi, è che a Trondheim lei è stato nominato nuovo membro del Comitato Centrale.

«Sì, da questa sessione sono membro del Comitato Centrale. A Busan, nel 2013, era stata eletta la valdese Valeria Fornerone, che per motivi personali ha rassegnato le dimissioni. La Chiesa valdese mi ha proposto come sostituto e il Comitato Centrale ha approvato la nomina. Non era la prima volta che partecipavo al consesso. C’ero stato in altra veste, perché prima di diventare pastore avevo lavorato per un’organizzazione ecumenica giovanile a livello europeo. La rappresentanza degli interessi giovanili in questo tipo d’istituzioni era parte del mio lavoro. Probabilmente è anche per questo che la Chiesa valdese ha pensato a me, perché chi entra in corso d’opera in un organismo che ha già iniziato a lavorare è meglio che abbia un’esperienza pregressa del suo funzionamento».

Perché riunirsi a Trondheim?

«La prassi è che il Comitato Centrale faccia una riunione a Ginevra, sede del Cec, e la successiva in un'altra città nel mondo. Erano un po’ di anni che il Comitato non si teneva in Europa, c’è stato un invito molto generoso da parte della Church of Norway e quindi si è andati a Trondheim. Per motivi storici, potremmo dire che in ambito ecclesiastico Trondheim è la capitale della Norvegia. Tanto per fare un esempio, fino agli inizi del Novecento è nella sua cattedrale che si è svolta la cerimonia d’insediamento dei reali di Norvegia. In Norvegia il protestantesimo è ancora legato alla Corona: di fatto è una religione di Stato, anche se in versione sempre più edulcorata».

Foto: Pietro Romeo