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Innovazioni e criticita' della riforma costituzionale

A colloquio con Stefano Sicardi, professore ordinario di Diritto costituzionale: le sfide e i dubbi verso il referendum di ottobre

Nella Gazzetta ufficiale del 15 aprile 2016 è stato pubblicato il testo della legge costituzionale approvato da entrambe le Camere, in seconda deliberazione, a maggioranza assoluta dei componenti. Su questa legge i cittadini italiani saranno chiamati il prossimo ottobre a esprimere la propria opinione. Ecco le principali novità previste:

1. Finisce il bicameralismo perfetto. Il Parlamento sarà sempre composto da Camera e Senato, ma solo la prima potrà accordare o revocare la fiducia al governo. Inoltre la stessa Camera dei deputati avrà la preminenza legislativa.

2. Il Senato subirà un taglio dei senatori. Da 315 a 100. Tutti con l’immunità. 95 saranno eletti dai Consigli regionali «in conformità alle indicazioni espresse dagli elettori alle elezioni politiche». Gli altri 5 potranno essere nominati, come accade anche oggi, dal presidente della Repubblica.

3. Il presidente della Repubblica sarà eletto con i 2/3 di senatori e deputati nei primi tre scrutini e con i 3/5 dal quarto scrutinio. Dal settimo si passa a un quorum dei 3/5 dei votanti.

4. Modifica del Titolo V. È la parte della Costituzione dedicata agli Enti autonomi che costituiscono la Repubblica. Si è riscritto l’elenco delle materie riportandone molte alla competenza dello Stato e sono state eliminate quelle concorrenti. Inoltre sono state cancellate le Province dal testo costituzionale.

5. Leggi popolari e referendum. Per presentare una proposta di legge popolare serviranno 150.000 firme (oggi almeno 50.000). È salita anche la soglia per il referendum abrogativo: non più 500.000 firme di elettori, ma 800.000: il quorum sarà fissato al 51% dei votanti delle ultime Politiche. Invece se la raccolta firme si attesta tra le 500 e 800.000, resta il quorum del 51% degli aventi diritto al voto.

Con Stefano Sicardi, professore ordinario di Diritto Costituzionale, proviamo a entrare nel merito di alcuni fra gli aspetti oggetto di maggior dibattito in queste settimane.

La Costituzione italiana viene spesso definita una delle migliori costituzioni al mondo. È d’accordo? Se è così perché modificarla?
«La Costituzione italiana, nella I parte sui diritti e doveri, ha felicemente tradotto in norme costituzionali i principi di uno Stato liberaldemocratico (libertà personale e associativa, di espressione, pluripartitismo) ma anche «sociale» (eguaglianza, salute, lavoro, dignità del lavoratore, funzione sociale della proprietà e dell’impresa). Proprio queste ultime proclamazioni, per nulla superate, sono però oggi (non solo nel nostro Paese) in grande difficoltà, per il favore di cui gode un liberismo senza freni e per il trasformarsi della scena economica mondiale che ha eroso fortemente le risorse da destinare al Welfare. La Costituzione italiana ha inoltre costituito un felice compromesso, non al ribasso, tra le diversissime forze politiche che l’approvarono e ha posto le basi per il consolidamento della democrazia in Italia. Quest’esigenza di reciproca garanzia ha però portato i costituenti a sacrificare, nel timore di prevaricazioni, il circuito decisionale. L’esigenza di poter assumere decisioni in tempi ragionevolmente certi è sempre più fondamentale nelle democrazie. Occorre coniugare decisione con garanzia, non scambiando per quest’ultima le situazioni di stallo o di contrattazione senza fine. La Costituzione stessa prevede un procedimento di revisione, nella consapevolezza che l’adeguamento nel tempo possa rivelarsi necessario. Tutti i sistemi costituzionali sono destinati a evolversi; l’optimum è che ciò avvenga per passaggi condivisi. Ma pretendere di «pietrificare» un sistema costituzionale fa solo correre il rischio che, prima o poi, venga modificato extra ordinem».

È più consigliabile procedere a piccole modifiche, che rischiano però di snaturare il senso originale del testo, o drasticamente, ripensando la Costituzione stessa?
«Credo sia un errore fissarsi sulla differenza tra modifiche puntuali o non puntuali, cioè tra “revisioni” in senso stretto e “riforme” costituzionali. La mia opinione è che una Costituzione non debba (e meno che mai la nostra), attraverso le modifiche, venire stravolta, ma pure che ben possano essere necessari interventi di adeguamento alle situazioni che richiedano interventi tra loro coordinati: se si cambia il bicameralismo è logico porsi il problema di come eventualmente riposizionare il governo o il ruolo del Capo dello Stato. Se si vuole immaginare un nuovo equilibrio non si può cambiare un pezzo alla volta. Ancora – si dice – l’elettore, in sede di referendum costituzionale, dovrebbe, di fronte a una riforma non puntuale, comunque poter scegliere tra quesiti omogenei (come per il referendum abrogativo), relativi alle diverse modifiche prospettate. Sono in minoranza, ma non sono assolutamente d’accordo: la proposta di modifica (proprio perché a mio avviso non deve necessariamente limitarsi a specifici ritocchi) è per me un insieme, è frutto di un progetto approvato dal Parlamento, che non può né deve essere tagliato a fette; non è il popolo che revisiona la Costituzione; il popolo ha il compito di valutare complessivamente tramite gli strumenti del referendum se quanto propostogli risponde alle aspettative o meno».

La riforma della Costituzione sposta parte del potere dai Comuni e dalle Regioni allo Stato e, nello Stato, dal Parlamento al Governo. Il capo dell’esecutivo, inoltre, nomina anche una buona parte dei capilista per il Senato. Ciò incide sulla rappresentanza del corpo elettorale, che vede gravemente limitata la propria sovranità (invece sancita nell’art. 1). Se si voleva rendere più agile (e meno costoso) il funzionamento del Parlamento e del Governo, non sarebbe stato più semplice dimezzare il numero (e gli stipendi) dei deputati e dei senatori, e differenziare nettamente le funzioni del Senato?
«La riforma rinforza i poteri statali rispetto a quelli regionali. C’è da dire che l’attuale riparto di competenze ha dato luogo a non pochi problemi e la Corte Costituzionale ha, negli anni, circoscritto il potere delle Regioni. Rinforzare i poteri statali non significa però vanificare le competenze regionali, che richiedono una legislazione regionale più qualificata e attenta rispetto al passato. Preoccupa molto l’articolazione dei poteri locali: almeno nelle Regioni di grande dimensione è stato un grave errore scagliarsi contro le Province, sulla base di infondate e demagogiche parole d’ordine sul costo della politica. Semmai le Province non si sarebbero dovute moltiplicare troppo nel passato e dotarle invece di poteri più adeguati. Con la riforma si indeboliscono le aree periferiche e si rafforzano quelle urbane (con le città metropolitane) rischiando una situazione gravemente sbilanciata.
C’è sicuramente il forte rischio, non da oggi, di un accentramento delle decisioni su liste e candidature in poche mani, con un ulteriore effetto “domino” derivante dalla combinazione fra legge elettorale e riforma costituzionale. È una tendenza connaturata all’esercizio del potere, accentuatasi negli ultimi anni: per contrastarla occorrono anzitutto precise regole di democrazia interna dei partiti e moralizzazione della vita pubblica. Ancora, la corruzione dilagante e insultante, unita alla scellerata idea che tutto, meno l’aziendalismo, costituisca una rapina di risorse, ha portato a eccedere in senso del tutto opposto al passato sui costi della politica. Gli organi collegiali vanno dimensionati sulle esigenze cui devono corrispondere. In Italia c’erano troppi parlamentari (e con troppi privilegi) ma una loro perequazione dovrebbe rispondere a ragionamenti e non a rancori. Con i nostri abitanti una Camera intorno ai 600 deputati non è eccessiva (è nella media europea) e i seggi senatoriali vanno calibrati alla stregua delle competenze da attribuire a quel ramo del Parlamento».

L’Italicum non è parte del testo di riforma ma fa parte delle novità proposte in queste settimane per rendere più governabile il Paese. Soglie e premi di maggioranza sono strumenti adeguati? Quali sono i rischi di una legge elettorale che nel nome della governabilità e dell’alternanza riduce la rappresentanza?
«A mio avviso la criticità dell’Italicum sta nell’“automatismo della premialità”. Anche i sistemi elettorali drasticamente maggioritari (come quello inglese), pur rifiutando l’equazione “tanti voti – tanti seggi” (alla base dei sistemi proporzionali), favoriscono ma non rendono automatica, cioè “a qualsiasi costo”, l’emersione di una maggioranza dalla contesa elettorale. Mi si potrebbe replicare (si veda la Spagna) che proprio questo è il loro limite, il non essere cioè a tutto tondo majority-assuring (“a maggioranza garantita”). Risponderei invece che questo mi pare un loro pregio. Pur mirando a “costruire” una maggioranza di governo, i sistemi appunto maggioritari non si spingono tanto avanti da imporla ciecamente. Operano una “ricostruzione” della rappresentanza che però non spezza totalmente il nesso – appunto rappresentativo – tra quota del consenso e composizione dell’assemblea. Comportano altri rischi (se in tutti i collegi uninominali vincesse il candidato di uno stesso colore, non ci sarebbe spazio per le opposizioni: ma proprio la compresenza di tanti collegi impedisce che ciò accada), rischi che l’Italicum non presenta (il premio di maggioranza si ferma al 54% dei seggi), ma non irrigidiscono a priori il risultato finale. Nell’Italicum le cose stanno diversamente, almeno in relazione al ballottaggio: al primo turno, per ottenere il premio occorre conseguire almeno il 40% dei voti e si tratta di un consenso alto – ma non facile da conseguire! – che può giustificare il premio previsto. Ma le cose cambiano per il ballottaggio, che parrebbe profilarsi come l’evenienza più frequente. In tal caso la lista vincente, qualsiasi consenso abbia conseguito al primo turno, si prende una quota fissa, determinata fin dall’inizio, di seggi, senza che nemmeno sia prevista, al ballottaggio, alcuna percentuale di partecipazione. Per cui, ad esempio, dopo aver conseguito al primo turno il 20% dei voti, una data lista, vincitrice al secondo turno, ma con una partecipazione elettorale intorno al 40%, otterrebbe comunque la quota fissa del premio di maggioranza. Se è comprensibile, anzi apprezzabile, preoccuparsi di prospettare sistemi elettorali che aiutino a costruire maggioranze di governo, una forzatura eccessiva può condurre a risultati paradossali e delegittimanti per l’intero sistema (tra cui, persino, la convergenza di tutti i perdenti al primo turno per dare una lezione a chi vi conquistò la maggioranza relativa!). È stato proposto almeno di introdurre una soglia di partecipazione per la validità del ballottaggio. Si replica che nei ballottaggi di collegio propri delle elezioni legislative, come in Francia, questa soglia non è prevista. Ma una cosa sono tanti ballottaggi in tanti collegi, altra cosa è “il” ballottaggio, per antonomasia, che decide la futura maggioranza parlamentare nel suo insieme. Una soglia di validità (non troppo alta, altrimenti le opposizioni potrebbero optare per una strategia analoga a quella referendaria: “state a casa”, per evitare lo scatto del premio) avrebbe potuto essere un correttivo utile.

(a cura di Claudio Geymonat, Maurizio Girolami e Nicola Pedrazzi)

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