Anche la Germania riconosce il genocidio degli armeni
07 giugno 2016
A 101 anni dal Medz Yeghern, il “grande crimine” che vide protagonista l’Impero Ottomano, il Parlamento tedesco ha votato una mozione con cui si riconosce come genocidio il massacro degli armeni del 1915–1916
Giovedì 2 giugno il Parlamento tedesco ha votato una risoluzione con la quale si è riconosciuto come genocidio il massacro degli armeni compiuta dall’Impero Ottomano tra il 1915 e il 1916. La mozione, presentata dai partiti di governo insieme ai Verdi, aveva già allarmato Erdogan e i suoi ministri prima che si arrivasse al voto, e il primo giugno il nuovo Primo ministro turco, Binali Yildrim, aveva fatto pressioni sul parlamento tedesco parlando di un eventuale voto favorevole come di un rischio diplomatico che avrebbe «messo a dura prova la storica amicizia tra Germania e Turchia».
Con questo voto, la Germania ha deciso di riconoscere una versione degli avvenimenti storici nel Caucaso dell’inizio del XX secolo condivisa da altri 22 Paesi, tra cui l’Italia, la Francia e la Russia, che qualificano quello armeno come un genocidio.
Secondo il giornalista Simone Zoppellaro, a lungo corrispondente dall’Armenia per l’Osservatorio Balcani e Caucaso e ora di base in Germania, «questo voto è figlio di un percorso lungo e accidentato, anche perché è stato rimandato per parecchio tempo: se ne parlò molto già lo scorso anno, in occasione del centenario del genocidio armeno, avvenuto nel 1915».
Come mai si tratta di una questione così delicata?
«Le ragioni sono diverse: prima di tutto i parlamentari hanno avuto hanno avuto moltissime pressioni da parte della Turchia e da parte di diversi gruppi di potere per evitare che si arrivasse al riconoscimento del genocidio; inoltre la Germania non ha solo riconosciuto il genocidio armeno chiamandolo in quel modo, ma ha anche compiuto un passo ulteriore, dichiarando la propria responsabilità storica nell'aver contribuito come alleata all'epoca dell'Impero Ottomano a fare in modo che questo genocidio avvenisse.
Mi sembra importante ricordare il caso di Cem Özdemir, uno dei due leader dei Verdi tedeschi, turco di origine circassa, che in questi giorni ha ricevuto diverse minacce a carattere personale, e questo ci dà anche l'idea di quanto questo voto non sia solo una questione di memoria di quell'evento storico, ma anche un fatto politico che crea ancora oggi grandi tensioni, a più di un secolo di distanza».
Quali sono state le reazioni in Armenia? Di voto in voto, il riconoscimento che portata ha oggi?
«Il riconoscimento è ampio, però è necessario ricordare che mancano dei tasselli importanti. Il primo sono gli Stati Uniti, dove molti Stati hanno riconosciuto il genocidio armeno, ma dove a livello federale manca ancora del tutto. Tra l'altro, fra tutti i presidenti nella storia americana, solo Ronald Reagan utilizzò la parola “genocidio”, nessun altro. Lo stesso Obama, che più volte in epoca di campagna elettorale ha dichiarato alla comunità armena che l'avrebbe riconosciuto una volta presidente non l'ha mai fatto, quindi gli Stati Uniti da un lato non hanno riconosciuto il genocidio armeno. Possiamo ricordare anche Israele, ad esempio, che per altre ragioni poi non l'ha mai riconosciuto, una cosa che può sembrare a molti ascoltatori un paradosso, nonostante molti ebrei anche dentro Israele si siano battuti molto anche per questo riconoscimento, però poi alla fine non è mai avvenuto».
Come prevedibile, la Turchia ha reagito molto duramente. Visti gli storici rapporti tra Berlino e Ankara, il voto tedesco ha un peso diverso da quello di altri Paesi?
«Sicuramente sì, ha un enorme significato, negli ultimi anni è stato il più importante riconoscimento del genocidio, a parte quello del Papa dello scorso anno. Ha creato grandi tensioni anche per questo, perché in Germania c'è una grande presenza turca di prima, seconda e terza generazione. Tuttavia, va riconosciuto che la comunità turca ha espresso diverse posizioni, e diversi esponenti politici di origine turca si sono dichiarati a favore del voto. Certo, non sono mancate invece le componenti della società tedesca che hanno vissuto questo passaggio parlamentare come un trauma, reagendo in maniera molto dura, un po' come ha fatto, forse eccessivamente, il governo turco, che ha rilasciato dichiarazioni di fuoco e ha tirato in ballo addirittura l'Olocausto».
La società turca è compatta nel condannare questo voto?
«Niente affatto. Bisogna sempre ricordare che, anche se gli spazi per la discussione sono sempre più ristretti, la società turca è plurale, e anche per quel che riguarda il genocidio, questo l'ho riscontrato viaggiando in Turchia, ma anche conoscendo, intervistando, diversi intellettuali turchi, che non hanno nessun problema a riconoscere che quanto avvenuto cent'anni fa fu genocidio.
È certamente un problema molto sentito, e lo è sempre stato, a livello governativo. I governi turchi, da quelli più laici e nazionalisti degli scorsi decenni fino a quelli più confessionali come quello di Erdogan, non hanno mai voluto sentir parlare di un riconoscimento. Per fortuna, però, la società civile turca è molto più avanti del suo governo».
Parlando ancora di governo, è possibile che l’accordo tra i Paesi dell’Unione europea e la Turchia sui migranti, fortemente voluto dalla Germania, possa essere a rischio in seguito al voto del Parlamento tedesco, come ipotizzato da alcune testate italiane?
«No, non credo. Certo, per la Turchia è una questione importante, ma è soprattutto simbolica. Va sottolineato che aver riconosciuto il genocidio non significa che la Germania si sia schierata a fianco dell’Armenia, che rimane un Paese isolato. Se pensiamo alla Turchia e all'Azerbaijan ci rendiamo conto che questi due Paesi continuano ad avere supporti politici ed economici ben diversi rispetto a Erevan. Oltretutto, per quel che riguarda la Turchia, non credo che Erdogan abbia le possibilità di mettere in discussione un accordo che, in un momento come questo di gravi tensioni interne ed esterne al Paese, è fondamentale per la Turchia. Credo che Erdogan si limiterà a ripetere quanto già fatto mille volte, cioè ritirare l'ambasciatore e minacciare ripercussioni, ma non metterà in discussione l'accordo stipulato a marzo. Non dimentichiamo che Angela Merkel e Sigmar Gabriel, i due principali esponenti del governo tedesco, non hanno votato questo riconoscimento del genocidio, per cui anche da parte della Germania c'è stata molta prudenza proprio per evitare eventuali ripercussioni politiche. Dall’altra parte il governo armeno ha senza dubbio le sue colpe, perché ha creato un sistema politico con notevoli livelli di corruzione e, anche se dopo l’indipendenza dall’Unione sovietica si sono alternati diversi governi, partiti e presidenti, a differenza di altri paesi ex-sovietici, non siamo di fronte a un modello di democrazia. Tuttavia, questa è anche una conseguenza dell’isolamento armeno».
C'è una dimensione religiosa nel contrasto sul genocidio armeno?
«No, non è mai stata una questione religiosa. Anzi, paradossalmente la questione armena sorge e si afferma 100 anni fa, quando l'Impero Ottomano cessò di essere un impero dominato da un'ideologia religiosa e iniziò a cambiare pelle per diventare un moderno nazionalismo che ha molto a che fare con i fascismi che si sarebbero affermati di lì a pochi anni in Europa. Il clima culturale era quello di un nazionalismo esclusivo, estremamente aggressivo nei confronti delle minoranze, che vide i Giovani Turchi portare avanti il sistematico sterminio degli armeni proprio nell'ottica di turchizzare un territorio plurale come quello dell'Anatolia. Certo, su tutto questo sono subentrate negli anni delle pulsioni religiose, che però sono sempre rimaste in secondo piano rispetto alla questione vera, che è di tipo etnico. Ancora oggi in Armenia, anche nella guerra che c'è in corso nel Nagorno–Karabakh, tra Armenia e Azerbaijan, la questione religiosa affiora veramente di rado. Anche i governi, entrambi, ribadiscono sempre che la religione non c'entra. Per fortuna quindi la questione dell’identità religiosa rimane ai margini sia delle tensioni tra Armenia e Turchia, sia di quelle tra Armenia e Azerbaijan».
Tra il 24 e il 26 di giugno l’Armenia sarà teatro di una visita del Papa. C’è attesa per questo evento?
«C'è un clima di attesa importante perché l'Armenia è un piccolo Paese, solo e circondato da giganti come la Russia, l'Iran e la Turchia e da nemici molto più importanti di lei, come l'Azerbaijan e ancora una volta la Turchia, con cui addirittura i confini sono chiusi. Per l'Armenia la visita del Papa rappresenta moltissimo, così come ha avuto grande significato l'utilizzo della parola “genocidio” da parte di Francesco. Sicuramente l'isolamento dell'Armenia rimarrà, ma per molti armeni questa rappresenta una visita importante, perché il cristianesimo è un elemento fondamentale della propria identità: l’Armenia, infatti, è stata la prima nazione al mondo a convertirsi al Cristianesimo, addirittura all'inizio del IV secolo, grazie all'opera di San Gregorio il Dominatore. Non si tratta di un Paese cattolico, perché ha una sua chiesa, che è la chiesa apostolica armena, ma questo non riduce l’importanza della visita papale. Il Cristianesimo, infatti, rimane un elemento fondante dell’identità armena e anche di quella della diaspora. Un po' come gli ebrei nel mondo hanno mantenuto la loro identità grazie alla religione, che era una religione diversa rispetto a quella della maggioranza, la stessa cosa si può dire per gli armeni, che hanno mantenuto un'identità forte grazie alla propria lingua ma anche alla propria religione».