La coscienza protestante attraverso i secoli
03 maggio 2016
Un libro a più voci pubblicato dall'editrice Claudiana
Lutero, di fronte alla Dieta di Worms, motiva il proprio rifiuto di ritrattare con la centralità della Parola di Dio («io sono vinto dalla mia coscienza e prigioniero della Parola di Dio»): considerando, cioè «insufficiente la libertà di coscienza legata alla volontà o alla razionalità, Lutero la vincola alla Scrittura» (D. Tomasetto, p. 51). Quanto a Calvino, definisce la coscienza «una cosa intermedia fra Dio e gli uomini», che «rimanda l’uomo sempre al tribunale di Dio» (p. 53); in ultimo prendiamo a esempio Karl Barth: «La “libertà di coscienza” non è dunque, contrariamente all’opinione corrente nel XVIII e XIX secolo, la libertà di ciascuno di pensare e credere quel che vuole, secondo le sue preferenze; ma è la possibilità che Dio accorda a quelli che ricevono la sua rivelazione di pensare ciò che è giusto, vero e saggio secondo il suo giudizio» (p. 61).
Detta così, la libertà di coscienza nell’ottica protestante pare un concetto di semplicità addirittura disarmante, un criterio a cui accondiscendere quasi con spontaneità: perché la realtà è molto meno lineare? Essenzialmente perché il concetto attraversa la storia, e viene vissuto in modi diversi in diversi contesti. Ma forse si è iniziato presto a rivestire questo concetto di significati sorti a posteriori. Lo chiarisce Silvana Nitti, il cui saggio fa parte, con il precedente, del libro collettivo «La coscienza protestante»*, nato all'interno della Commissione studi della Federazione delle chiese evangeliche in Italia: siccome Lutero fu costretto a un atto di sottomissione (che come sappiamo rifiutò di eseguire), la sua posizione fu presa «a manifesto della libertà», «quasi che in quel momento si stesse discutendo dell’autonomia della persona umana, o di un diritto fondamentale dell’essere umano, così come oggi noi siamo abituati a pensarli» (p. 32). Non solo: anche il rapporto che abbiamo con la Parola di Dio è tutt’altro che scontato (si va dall’esclusività assegnata al clero, per secoli, in ambito cattolico, all’estrema varietà di modalità di lettura nell’ambito protestante, privo di un magistero, dal metodo storico-critico al letteralismo); in realtà «quel testo non è univoco, non è immediatamente Dio che parla, al contrario esso media la rivelazione attraverso tante testimonianze umane, differenti tra loro, ed è con questa complessità (...) che occorre misurarsi» (p. 38).
Il fatto è che la complessità va di pari passo con il libero esame e con un rapporto Dio/umanità che fin dall’Antico Testamento è quello di una alterità, che lascia spazio di manovra a noialtri che siamo sulla terra. Anche la libertà di trasgredire, di dimenticare i comandamenti, di adorare gli idoli e il vitello d’oro, di non fidarci più di Dio. Ben diversa era la visione del mondo della classicità: per Antigone (e per i personaggi delle altre tragedie greche) «non ci sono le parole libertà, obiezione di coscienza, responsabilità personale e dignità umana»; ci sono invece i conflitti: «famiglia/stato; leggi della città/leggi sacre», e via dicendo (Tomasetto, p. 48). O si sta di qua, o di là: ci può essere ribellione, e questo significa pagare delle conseguenze. È sconosciuto, invece, il valore evangelico della trasformazione dell’individuo.
Non stupisce dunque che anche i vari ambiti in cui la cultura protestante si è affermata nel corso dei secoli vedano sfumare il concetto di coscienza, lo vedano adeguarsi ai contesti e vedano i contesti forgiarsi (anche) su questo stesso concetto. Il saggio introduttivo di Elena Bein Ricco ripercorre la progressiva affermazione del soggetto che dopo il Medio Evo diventa gradualmente autonomo (centrale la figura di Montaigne) e che «non ha certezza di sé», lungo un percorso che passa per razionalismo, illuminismo e via via per la psicoanalisi e le più recenti teorie e filosofie critiche. Poi vengono, appunto, altri contesti: quello, per esempio, indagato da Massimo Rubboli sul protestantesimo «non-conformista» angloamericano del XVII secolo. Si scopre in queste pagine che nell’Inghilterra di inizio Seicento «la coscienza non riguardava la libertà di scelta individuale ma piuttosto una questione di giudizio e responsabilità: la coscienza era uno strumento per discernere la volontà di Dio» (p. 71).
Il percorso non è esente da rischi, peraltro, come segnala Hans Gutierrez, a partire da quello dell’esasperazione dell’individualismo. È forse anche per questo che con faciloneria vengono attribuiti oggi ai protestantesi prerogative che garantirebbero una totale capacità di controllo del proprio destino: che esiste nel mondo moderno, ma deriva dall’incrocio, non sempre felice, con altre suggestioni e culture. Per questo, chiarito con Sergio Rostagno che la svolta luterana consisté nel superare l’immagine di Dio quale «garante delle idee della giustizia», perché «Dio non è rappresentabile da nessuna idea, solo da Cristo stesso» (p. 141), la conclusione di Debora Spini merita di essere posta al centro di ogni futura interlocuzione con altre culture e con la politica: «Non è (...) un modello prometeico di coscienza che emerge dall’esperienza della fede della Riforma, né il soggetto/individuo autonomo perché sovrano; l’individualità della coscienza di Lutero è in primo luogo l’esperienza di una solitudine, di una perdita di tutti i “gusci” e di tutte le reti di protezione umane, condizione necessaria per l’esperienza della Grazia» (p. 167).
* E. Bein Ricco – D. Spini (a c. di), La coscienza protestante. Torino, Claudiana, 2016, pp. 175, euro 14,90.