Tra i due litiganti, scuola pubblica
06 aprile 2016
Fa discutere una recente sentenza del tribunale di Milano
Immaginiamo una famiglia italiana composta da due genitori e due ragazzini di 12 e 9 anni. Entrambi hanno sempre frequentato scuole paritarie cattoliche, ma dopo la separazione i genitori hanno idee diverse sulla prosecuzione del percorso educativo: la madre insiste perché venga garantita ai bambini «la continuità» della loro istruzione; il padre, preoccupato dal nuovo assetto economico della famiglia, spinge per iscrivere i figli alla scuola pubblica. Che fare?
Per risolvere le loro divergenze, a Milano due genitori simili hanno deciso di affidarsi alla legge. La sentenza firmata lo scorso 18 marzo dal giudice Giuseppe Buffone della nona sezione civile del tribunale di Milano ha stabilito che in assenza di un accordo tra madre e padre, entrambi figli debbano frequentare un istituto statale. Secondo il giudice milanese «la decisione dell’Ufficio giudiziario non può che essere a favore dell’istruzione pubblica»: perché la scuola pubblica rappresenta una scelta «neutra», che «non rischia di orientare il minore verso determinate scelte educative o di orientamento culturale in generale» e perché in mancanza di «evidenti controindicazioni all’interesse del minore» non si può dire «che la scuola privata risponda “al preminente interesse del minore”, poiché vorrebbe dire che le istituzioni di carattere privato sono migliori di quelle pubbliche».
Secondo le statistiche dello stesso tribunale di Milano, insieme alla residenza, le decisioni riguardanti la scuola dei figli sono l’argomento più frequente di lite coniugale. Per questo secondo Laura Cossar, avvocato di diritto di famiglia e membro dell’ufficio di presidenza dell’Ordine degli avvocati di Milano, questa sentenza avrebbe il merito di «mettere ordine». «Capita che la scuola privata risponda a un bisogno identitario del minore, come gli istituti ebraici per i figli di ebrei ortodossi, o gli istituti “nazionali” a cui gli stranieri iscrivono i figli – specifica l’avvocata ai microfoni di «Repubblica» – ma sono eccezioni. Spesso uno dei genitori fa della scuola privata una questione di appartenenza a un’élite o un capriccio».
Per capire in che misura questa sentenza incarni un precedente giuridico, abbiamo raggiunto al telefono alcuni giuristi del mondo valdese, per un commento a caldo.
L’avvocata Danielle Jouvenal, presidente della commissione discipline della chiesa valdese, non ha letto la sentenza per intero – «Non sono un'esperta di diritto di famiglia, e forse per questo non ha attirato la mia attenzione» – ma si è posta delle domande pregnanti: «Da quello che ho sentito mi sembra ineccepibile che la scuola pubblica venga considerata idonea allo sviluppo culturale del minore, diciamo “per regola generale”. Ciò detto singole realtà possono dare adito a giudizi diversi, e alla regola generale subentra il caso per caso. Conta ad esempio sapere che cosa ci sia in concreto dietro al mancato accordo dei genitori. È discorso economico o si tratta di scelte ideologiche? E se sono scelte ideologiche, quali? In altre parole, se invece di pubblico/privato il contrasto fosse stato, faccio un esempio, tra scuola dei gesuiti e scuola ebraica, quale sarebbe stata la ratio del giudice? Ritengo probabile che avrebbe dovuto indicare comunque la scuola pubblica. Infine, da parte nostra, è giusto chiedersi come sarebbe accolta una sentenza simile che coinvolgesse il collegio valdese».
Per l’avvocato Paolo Gay, la sentenza del Giudice Buffone non istituisce particolari precedenti giuridici: «Da quanto ho potuto leggere, il giudice non ha ritenuto di poter dare ragione né all’uno né all’altro genitore e ha dovuto quindi darsi un criterio, individuato nel carattere neutrale della scuola pubblica. Questa scelta è stata resa possibile dal fatto che non c’erano controindicazioni evidenti rispetto all’interesse del minore, ai danni che potevano essergli recati. In mancanza di peculiarità quali difficoltà di apprendimento, fragilità d’inserimento, esigenze in sintonia con la dotazione culturale o l’estrazione nazionale dei genitori, il giudice ha indicato nella scuola pubblica una soluzione idonea. Ha dovuto darsi un criterio a partire da un dato specifico». Interrogato sulle eventuali venature politiche di una sentenza che mette al centro la scuola pubblica, Paolo Gay ha risposto così: «Non ho potuto leggere per intero il testo della sentenza, ma mi sembra ben fatta: non si tratta di una decisione pregiudizialmente contraria alla scuola privata, né di una sentenza politica o impugnabile politicamente. Sul dato religioso il giudice non entra, non parla di religione cattolica né fa alcun riferimento ad altri contesti confessionali».
In linea con Paolo Gay è l’analisi dell’avvocato Sergio Gentile, membro del Consiglio di Facoltà della Facoltà Valdese di Teologia e del concistoro di Milano: «La sentenza è di grande interesse perché sia pur partendo da considerazioni di carattere economico (“la separazione impoverisce i membri famiglia, non solo affettivamente ma soprattutto economicamente”) pone in essere una precisa scelta di campo in favore della scuola pubblica». «Tuttavia – precisa Gentile – il giudice Buffone non ha inventato nulla, piuttosto si è rifatto al consolidato orientamento del Tribunale di Milano, secondo cui nell'ipotesi di conflitto tra i genitori la preferenza va accordata alle istituzioni scolastiche pubbliche, espressione diretta del sistema nazionale d’istruzione che a sua volta è esplicazione del diritto costituzionale (il secondo comma dell’art. 33 della Costituzione recita: “La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e grado”». «In sintesi – conclude Gentile – le altre istituzioni scolastiche (paritarie o private in generale) possono sì incontrare il favore del giudice nella risoluzione del conflitto, ma solamente là dove sia accertato un concreto interesse dei figli a frequentare una scuola diversa da quella pubblica. In questo caso specifico, evidentemente, non era così».
Dal febbraio del 2014 è entrata in vigore la riforma del codice civile, che in materia di filiazione ha eliminato quel residuato giuridico che era la «potestà» (un tempo «patria», ovverosia, in ultima istanza, del padre) in favore della paritaria «responsabilità genitoriale». «Se – ricorda paolo Gay – su questioni educative coniugi o genitori non sono in grado di mettersi d’accordo, possono chiedere liberamente al giudice tutelare. Nel caso di Milano evidentemente eravamo in sede di separazione, per questo si è ricorsi al tribunale, ma il principio è lo stesso: non esistendo un’intesa tra i genitori, il giudice ha avuto l’onere di sostituirsi loro».