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Il dialogo non è mai per sottrazione

Considerazioni a margine dell’incontro fra il patriarca Kirill e papa Francesco

Una delle faccende più complicate, quando ci si pone in una logica di dialogo, è la necessità di comprendere e accogliere le ragioni dell'altro, senza per questo abbandonare o tradire le proprie. E' complicata non soltanto a livello accademico, ma proprio in senso esistenziale. E si fa ancora più intorcinata quando, come quasi sempre accade nel dibattito ecumenico, la frattura tra le Chiese ha origini antiche e le colpe della divisione sono variamente distribuite da una parte e dall'altra. Un caso estremamente chiaro di ciò che dico sono le reazioni seguite alla firma della dichiarazione comune tra papa Francesco e il patriarca ortodosso di Mosca Kirill del 12 febbraio scorso.

Le preoccupazioni di parte protestante le ha sintetizzate bene e con grande serenità Luca Negro, accennando al rischio di una “santa alleanza” tra cattolici e ortodossi a difesa della morale tradizionale su questioni come le convivenze omosessuali, l'aborto e la procreazione medicalmente assistita, temi – come tutti sanno - assai “caldi” nel dibattito politico europeo. Ma se questo timore del mondo della Riforma non è del tutto nuovo, meno scontato era il “fuoco amico” contro papa Francesco giunto dalle fila della Chiesa cattolica ucraina di rito greco.

Dico “fuoco amico” non a caso, perché a sparare sulla dichiarazione dell'Avana è stato il numero uno della Chiesa greco-cattolica, l'arcivescovo maggiore di Kiev-Halyc Sviatoslav Shevchuk, amico personale di Bergoglio dai tempi di Buenos Aires, quando il primo era ausiliare dell'eparchia greco-cattolica della diaspora ucraina in Argentina, e l'altro era cardinale arcivescovo della capitale. In un'intervista immediamente successiva alla firma della dichiarazione, Shevchuk ha dato voce al malumore della Chiesa greco-cattolica ucraina per l'intesa con Kirill, paventando il rischio di un cedimento del Papa alle posizioni dei russi.

Qui sarebbe necessario un lungo e complicato excursus storico per spiegare i motivi della contesa ecclesiastica (ma anche politica) che, da più di 400 anni, divide ortodossi russi e greco-cattolici ucraini. Per farla il più breve possibile: nel 1585 nasce il patriarcato ortodosso di Mosca. I fedeli ortodossi che vivono nei territori che oggi chiameremmo Ucraina sono sulla linea del fuoco: abbandonati da Costantinopoli, si ritrovano a far fronte – da una parte – alle ambizioni annessionistiche dell'orso russo e – dall'altra parte – alle pressioni dei sovrani polacchi, che controllano le loro terre e che vorrebbero “latinizzarli”. Per salvare il salvabile, pochi anni dopo, nel 1595-6, le diocesi ortodosse che fanno capo a Kiev firmano l'unione di Brest-Litovsk, con cui accettano di passare alla Chiesa di Roma, ma salvaguardando riti, lingua e tradizioni orientali. Nasce così l'uniatismo, “inteso come unione di una comunità all'altra, staccandola dalla sua Chiesa”, un metodo replicato in altre occasioni dal Vaticano nei corso dei secoli, ma che oggi, alla luce di una più matura coscienza ecumenica, non viene considerato neanche dalla Chiesa cattolica come un modo adatto per ristabilire l'unità dei cristiani.

Sorpassato l'uniatismo, restano però gli “uniati”, termine che gli ortodossi usano ancora oggi come un insulto per definire i greco-cattolici ucraini. Dall'Unione di Brest ai giorni nostri, infatti, quella divisione non si è andata sanando, tutt'altro: soppressa dagli zar, perseguitata dai sovietici, la Chiesa greco-cattolica ucraina è riemersa dalle catacombe solo negli anni '90 del secolo scorso e ha preteso la restituzione della propria dignità e dei propri beni (incamerati dagli ortodossi fedeli a Mosca). E dagli con gli scontri, lo scambio di accuse, il gelo reciproco. Infine, con l'esplodere del recente conflitto armato del Donbass, in Ucraina orientale, greco-cattolici ucraini e ortodossi russi si sono ritrovati ancora una volta sui lati opposti del fronte: con Kiev i primi, con Mosca i secondi.

La dichiarazione comune dell'Avana firmata da Francesco e Kirill invita i fedeli ortodossi e greco-cattolici a riconciliarsi, trovando “forme di convivenza reciprocamente accettabili”. Inoltre chiede a tutte le Chiese cristiane in Ucraina di “astenersi dal partecipare allo scontro” e di “non sostenere un ulteriore sviluppo del conflitto”. Un tentativo saggio, dunque, di disarmare le coscienze e di eliminare qualunque alibi religioso in quella che è una lotta politica ed economica orchestrata con gli eserciti.

Le critiche di monsignor Shevchuk all'accordo tra il papa e il patriarca vertevano, in particolare, su due passaggi del documento: uno in cui il testo sembrava adombrare l'idea che quella in Ucraina fosse una guerra civile (e non piuttosto una aggressione russa, come ritengono a Kiev); e l'altro in cui pareva definire quella greco-cattolica come una semplice “comunità ecclesiale” e non una vera Chiesa “sui iuris”, parte a pieno titolo della Chiesa cattolica. Dopo alcune dichiarazioni distensive e comprensive del papa, Shevchuk si è però detto rincuorato e ha ammorbidito la sua posizione.

La morale ecumenica di tutta questa vicenda mi pare sottile ma importantissima: fino a che non si spezza la logica dei tatticismi e non saltano le liturgie del mero contrattualismo ecclesiastico, nessun salto in avanti sarà possibile nella riconciliazione fra i cristiani. Occorre mettersi in cammino, rischiare, fare il primo passo gratuitamente. Nella certezza spirituale che il dialogo non è mai per sottrazione: più dialogo tra due non vuol dire meno dialogo con altri, significa invece più comprensione e riconciliazione tra tutti. Penso che questa sia la scommessa “eversiva” di papa Francesco. A Creta, in occasione del Concilio pan-ortodosso che si terrà a giugno, se ne potrebbero vedere i primi frutti.

Foto  By Serge Serebro, Vitebsk Popular News - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9659543