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Tracciare una nuova strada per fermare la tratta di esseri umani

Secondo l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo la condanna di sei trafficanti di esseri umani per la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 da sola non basta per parlare di un cambio di approccio

Il 3 ottobre 2013 è una data impressa nella memoria collettiva: quella notte, infatti, davanti alle coste di Lampedusa si verificò uno tra i più tragici naufragi nella storia del Mediterraneo, nel quale morirono più di 360 persone.

I superstiti di quella notte raccontarono poi i loro viaggi, permettendo agli investigatori di risalire ai capi e ai gregari della banda di trafficanti. Alcune testate hanno descritto la sentenza di lunedì scorso, con la quale sei persone sono state condannate per traffico di esseri umani, come la prima nel suo genere. Secondo l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, coordinatore della Clinica Legale per i diritti umani dell'Università di Palermo e docente di Diritto di asilo e statuto costituzionale dello straniero, non è così. «Tuttavia – racconta – è uno dei primi casi nei quali si è dimostrata l'esistenza di una rete sovranazionale. Uno dei limiti del reato di tratta di esseri umani è che richiede l'individuazione di una rete che abbia un'estensione sovranazionale: questo complica notevolmente le indagini, anche perché sia i paesi dai quali provengono i migranti, sia i paesi di transito, non collaborano affatto nelle rogatorie che la nostra magistratura richiede periodicamente».

Spesso ci si trova a interagire con regimi autoritari che non hanno alcun rispetto dei diritti umani. È in ambienti come questi che nasce la tratta?

«Non proprio. Il problema sta nei paesi di transito, perché gli organizzatori della tratta, che magari provengono in effetti da paesi che sono gli stessi da cui partono i migranti, ormai sono stabilmente basati nei paesi di transito. Addirittura, sempre più di frequente accade che magari le persone fuggano anche in autonomia, si allontanino dal paese del quale sono originari senza essere coinvolti in fenomeni di tratta, ma poi subiscano violenze e condizionamenti inauditi in Libia. Questo è un aspetto sottovalutato».

Quando si arrestano i trafficanti di esseri umani basandosi su testimonianze dirette si vanno a colpire persone che spesso si trovavano sugli stessi mezzi dei migranti. È possibile che quindi si colpiscano sì dei criminali, ma che in realtà sono in parte schiavi di un sistema ancora superiore?

«Bisogna distinguere tra la vicenda specifica e la questione generale. Sui fatti del 3 ottobre del 2013 le testimonianze erano relative a persone poi condannate che avevano un ruolo importante nell'organizzazione e che si erano anche rese responsabili di violenze già in territorio libico, prima della partenza verso Lampedusa per quel tragico viaggio che poi si è concluso con l'annegamento di oltre 360 persone.

In generale, invece, bisogna distinguere tra i trafficanti, che gestiscono la tratta, e gli scafisti. I primi rimangono quasi sempre nei paesi di transito, oppure si imbarcano, ma solo occasionalmente, sui mezzi più grandi, come appunto era quello che portava quel grande numero di migranti verso Lampedusa, ma generalmente sui gommoni che partono dalle coste libiche si trovano ex pescatori senegalesi o egiziani, che normalmente non fanno parte di organizzazioni criminale, ma sono in qualche modo retribuiti, magari con un passaggio gratuito o con qualche centinaio di euro, e che sostanzialmente non sono utili per una ricostruzione complessiva delle reti criminali. Quando si parla di trafficanti bisogna pensare alla criminalità organizzata su ampia scala, come per esempio quella nigeriana, ormai ben radicata anche in Italia e in varie parti d'Europa».

L’ampiezza del fenomeno è tale da portare alle responsabilità della politica. Uno dei problemi è anche quello di intessere delle relazioni coi vari paesi per stroncare queste tratte. Quali strumenti abbiamo messo in campo come paese e come Europa per contrastare il traffico?

«Purtroppo sono proprio le relazioni a non funzionare come strumento di contrasto, perché vengono rette con paesi che non rispettano i diritti umani. Per esempio, dal 2007 esiste un accordo con l'Egitto per rimpatriare molto rapidamente tutti coloro che arrivano in Italia. Questo ha permesso di smantellare numerose organizzazioni di egiziani che facevano partire i loro mezzi verso le coste della Grecia e della Sicilia, ma ha avuto un prezzo molto alto: quello di un rimpatrio collettivo di centinaia di persone che sono state private della possibilità di chiedere asilo. Lo scambio rimane quindi quello tra informazioni e migranti da respingere nel modo più rapido possibile senza riconoscere i loro diritti fondamentali. È un rapporto un po' viziato che ha alimentato forme di collaborazione con paesi che non sono assolutamente democratici e che applicano sistematicamente la tortura nei confronti di tutti coloro che sono oppositori del regime dominante».

Al centro dei fenomeni di tratta si trovano le vittime, le persone, e i traumi che rimangono segnati sui loro corpi e nelle loro teste. Quali sono i principali?

«È un discorso molto ampio, si va dalle giovani donne, soprattutto nigeriane, e anche ragazzi molto giovani che sono sistematicamente abusati già nei paesi di transito, in Libia. Sono persone che arrivano con segni evidenti di abusi di natura sessuale. Abbiamo poi persone che vengono torturate sia da parte dei regimi poco democratici di questi paesi, che fanno sistematicamente ricorso alla tortura per intimidire e ridurre all'impotenza chiunque possa opporsi, sia da parte dei trafficanti che hanno invece lo scopo di estorcere denaro».

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Foto Radio Beckwith

Come si potrebbe evitare di finire in questa rete?

«Il problema è che mancano canali d'ingresso umanitari, mancano canali legali d'ingresso per lavoro, e il proibizionismo delle migrazioni non fa altro che alimentare le organizzazioni e accresce i livelli di violenza. Diventa sempre più difficile varcare le frontiere, ormai anche tra i diversi paesi africani».

La scorsa settimana sono arrivate in Italia le prime persone che hanno potuto usufruire dei canali umanitari organizzati dalla Fcei, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Potrebbero diventare un modello?

«Sono sicuramente un modello, il problema però è che riguardano poche persone rispetto alla dimensione del problema. Abbiamo a che fare con milioni di esseri umani in movimento, e certamente non si può pensare a un canale aperto soltanto verso un singolo paese. Il problema va affrontato dall'Unione Europea in modo diverso da com'è stato sinora. Nel 2015 abbiamo visto la Germania muoversi assolutamente da sola, prima aprendo a un numero enorme di persone, circa un milione, e poi di colpo chiudendo, con effetti devastanti sia sull'applicabilità del sistema di Dublino, che regola la competenza degli stati per l'esame delle richieste di asilo in base al primo paese d'ingresso, sia sullo stesso sistema di Schengen sulla libera circolazione. Le scelte unilaterali e la mancanza di coerenza politica tra i diversi stati hanno portato a soluzioni emergenziali adottate qua e là che hanno messo a loro volta in crisi la possibilità di governare in modo unitario questo fenomeno a livello europeo».

La condanna da cui siamo partiti è comunque un primo passo?

«La tratta non si ferma solo con le condanne. Il problema di fondo è governare gli arrivi, ridurre le guerre e cambiare i rapporti con paesi che applicano tortura e sono di fatto delle dittature. È necessario intervenire su questi livelli con una pacificazione, con un diverso tipo di rapporti a livello internazionale. Non ci sono alternative, altrimenti i migranti comunque continueranno a partire: le persone non partono per bisogno economico, ma partono perché la vita è impossibile nei loro paesi e spesso diventa ancora più drammatica nei paesi di transito nei quali si devono spostare per poi raggiungere l'Europa. La strada è una sola, la dobbiamo tracciare».

Foto copertina: Radio Beckwith - Porto M

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