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Oltre il bullismo

Intervista a Marta Lombardi, giudice minorile

20 gennaio: a Pordenone una ragazzina vessata dai compagni di scuola si butta dalla finestra; si salva, ma il messaggio che aveva lasciato («adesso sarete contenti») non cessa di interrogare le coscienze di insegnanti, autorità, famiglie. Per contrastare il fenomeno sorgono iniziative nelle scuole e nell’ambito della giustizia minorile. In particolare a Torino è stato messo in opera un processo di mediazione fra i soggetti che sono coinvolti in questi reati. Ne parliamo con Marta Lombardi, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica per i minorenni del Piemonte – Valle d’ Aosta.

«Il progetto – ci dice – è partito in seguito a un fatto di reato molto grave avvenuto in una scuola di Torino: un ragazzo era stato pesantemente preso in giro dai suoi compagni di classe, anche con un filmato, e varie scuole avevano cominciato a denunciare fatti analoghi; ne seguì, negli anni 2004-2007 una vera mole di denunce. Ora, reati di questo genere non vengono commessi “a ciel sereno”, prima ci sono avvisaglie e tensioni all’interno del gruppo-classe o ai giardinetti; poi queste tensioni arrivano aa deflagrare in un fatto di reato; mancava dunque un intervento nella “prima fase” della tensione, quando non c’è ancora reato, ma la fase è ugualmente molto dolorosa per chi la vive».

Si tratta quindi di non intervenire sul solo responsabile?

«In seguito al processo era possibile che l’imputato facesse un bel percorso di crescita – come prevede il processo minorile – ma di fatto nell’ ambiente di vita della persona le cose non cambiavano: e nel bullismo l’ambiente è molto importante, perché il bullo e la vittima hanno un ruolo all’ interno di un contesto, un gruppo esteso, all’interno del quale si definiscono dei ruoli. In una dinamica di bullismo si definiscono i ruoli della vittima e del bullo “esteriore”, spesso sobillato da un amico o compagno che non si espone più di tanto e si serve di uno che ha il bisogno interiore di apparire, di accreditarsi. Il rischio è che dopo un valido percorso giudiziario, una volta usciti dall’aula, i ragazzi possano continuare a essere bullo e vittima, non riuscendo a spogliarsi di questi ruoli. Di qui è nato il nostro progetto».

Che cosa succede dopo una denuncia?

«L’esito migliore sarà quello di un percorso educativo che può comprendere una “messa alla prova”, ma soprattutto l’utilizzo del mediazione penale. Questa avviene in un altro luogo, separato dal tribunale: la persona offesa e il bullo indagato si trovano uno di fronte all’altro, “facilitati” dai mediatori, e riescono a fare un lavoro molto importante su se stessi, riconoscendosi l’un l’altro come persona. Noi abbiamo deciso di andare oltre, aprendo un dialogo con la scuola, in modo tale che essa ridivenga capace di cogliere le avvisaglie di queste dinamiche prima che vengano commessi i fatti di reato».

Come si è sviluppato il progetto insieme alla Polizia municipale?

«Mentre noi ci ponevamo questi interrogativi, altrettanto faceva il Nucleo di prossimità della Polizia municipale. Abbiamo fatto un accordo fra Procura per i minorenni e Nucleo di prossimità per un’attività sperimentale: quando avviene la denuncia di un fatto di reato si avvia un’ indagine con i suoi strumenti (assunzione di informazioni, perquisizioni, sequestri, lavoro anche su strumenti come telefoni e computer in casi di cyber-bullismo); ma l’importante è insinuare nell’ambiente di vita delle persone coinvolte i germi che poi le portassero a diventare consapevoli di quanto successo. L’indagine veniva quindi affiancata da un’attività, tipica dei Nuclei di prossimità della Polizia municipale, che è l’ educazione alla legalità».

Che cosa succede dopo l’avvio dell’indagine?

«Il pubblico ministero fa una delega scegliendo gli strumenti d’indagine necessari, per accertare fatti e responsabilità; delega la Polizia municipale a operare con il metodo di prossimità, cioè a svolgere l’indagine sollecitando le persone, mentre le ascolta, a riflettere sul ruolo avuto nella vicenda, anche se è un ruolo silenzioso; non solo con i minorenni, ma anche con gli insegnanti, chiedendo con la classica domanda: ma non si è mai accorto di quel che stava succedendo? Perché non hai fatto niente? Ai minori capita a volte per paura: di perdere gli amici, di venire espulso da un “giro”, di rappresaglie. Intanto il Nucleo di prossimità avvia sulla classe un’attività sganciata dall’ indagine, che propone delle riflessioni guidate da esperti su bullismo, sopraffazione, regole. Questo sollecita la partecipazione di tutta la classe o classi coinvolte. A quel punto si lavora bene sull’intero gruppo, e spesso emerge che la persona denunciata non è il bullo ma la vittima, colui che reagisce per esasperazione».

In un contesto multiculturale il panorama si complica ulteriormente o si rivela utile?

«Molto spesso i ragazzi denunciati sono stranieri di prima o seconda generazione; spesso diventano bulli in seguito a esperienze vissute sulla propria pelle; ma ci sono anche ragazzi stranieri che sono vittime di razzismo. In questi casi la mediazione sulla multiculturalità conduce proprio ad affrontare la diversità e la sua accettazione; i ragazzi vengono coinvolti in un tavolo in cui si decidono delle azioni a carattere riparativo. Quando poi si va processo – se ci si va – si ipotizzano attività come servizi socialmente utili che siano proprio connotati sulla base dell’accettazione dell’altro. Le famiglie dei ragazzi stranieri non capiscono facilmente la nostra giustizia (che è sì implacabile verso di loro, ma anche molto lenta a prodursi, arriva tardi rispetto al fatto). È molto difficile, ma quando la comprendono anche l’amministrazione della giustizia diventa un’ opportunità di integrazione, per tutto il nucleo famigliare».

Sono previste altre forme di collaborazione con le scuole?

«Dall’ anno scorso il progetto è implementato da una iniziativa mirata alla prevenzione. Presso gli istituti scolastici disponibili si sono costituiti dei gruppi pari, formati da ragazzi volontari, interni agli istituti. Il gruppo è sostenuto da un insegnante ed è denominato “gruppo noi”. Ciascun gruppo individua al proprio interno  strategie e attività tese a favorire  solidarietà e integrazione all’interno della scuola. I gruppi noi delle varie scuole sono in contatto fra loro e scambiano le esperienze, così arricchendosi reciprocamente. Questo è stato possibile anche grazie alla partecipazione al progetto dell’ Ufficio scolastico regionale. Dopo la sperimentazione dell’anno scorso, avviata su istituti mirati della regione, quest’anno il progetto si è aperto a tutto il territorio e al momento vi partecipano più di 70 scuole. Certamente progetti come questo difficilmente potranno nascere e svilupparsi se il nostro ufficio verrà  accorpato alla procura ordinaria, come prevede l’attuale progetto di disegno di legge delega».

Foto di Jedidja, con licenza Licenza: CC0 Public Domain, by Pixabay

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