Time may change me, but you can't trace time
12 gennaio 2016
Considerazioni sulla vita e sulla morte di David Bowie
«Look up here, I’m in heaven…»
«Alza lo sguardo, sono in paradiso / Ho ferite che non si possono vedere… Sai, sarò libero proprio come quell’uccello / anzi, non è lui che assomiglia a me?» (Lazarus, 2016)
David Bowie ci aveva preparato alla sua morte. Già alcuni pezzi del suo penultimo disco The Next Day facevano presagire la consapevolezza della fine. Poi l’ultimo album Blackstar, uscito pochi giorni fa, ci ha dato la conferma.
In realtà Bowie, come ogni essere umano, ha affrontato la morte per tutta la vita. Una consapevolezza diversa è però sorta in una sera d’inizio estate 2004 a Schessel, in Germania, dove al termine di un concerto Bowie ha subito un intervento di angioplastica d’emergenza. È stato il suo ultimo concerto.
In seguito ha partecipato a eventi e spettacoli altrui qui e là, ma non ha più organizzato un “suo” concerto. E ha lavorato per anni a The Next Day, uscito nel 2013, quasi dieci anni dopo l’incidente di Schessel. Dov’è stato Bowie per dieci anni? A questa domanda risponde lo stesso artista con la canzone Where Are We Now? — “Dove siamo ora?” —, un pezzo struggente in cui si racconta mentre vaga a Berlino nel giorno della caduta del Muro. La città dove aveva vissuto un periodo importante della sua vita e che per l’amico Lou Reed era il simbolo della divisione tra esseri umani, per Bowie diventa un luogo di passaggio. Ma si passa sempre verso un “al di là”. «Non hai mai pensato che avrei potuto [passare dall’altra parte] portando a spasso i morti» (così traduco l’oscura espressione “walking the dead”).
David Bowie era tante cose, tra queste era anche un divo, una divinità laica, lo Starman (“L’uomo delle stelle”) di cui cantava nel 1972. Per quanto “divino”, tuttavia, Bowie era destinato a morire come ogni uomo sulla terra: di divino c’è però come ha affrontato la morte invece di negarla. La dignità di combattere la malattia nel privato dei suoi affetti e, allo stesso tempo, di preparare il suo pubblico al congedo definitivo.
Non è poco per un artista generalmente considerato eccessivo.
David Bowie non ha aspettato la propria morte o i segni di cedimento del suo corpo per riflettere sulla fine della vita. Spesso nelle sue canzoni affrontava più o meno esplicitamente la morte. Dall’astronauta di Space Oddity (1969) che galleggiava intorno al “barattolo di latta” — cioè la sua astronave — a Changes (1972), dove i cambiamenti della vita ti rendono straniero a te stesso, dalla depressione tossica di Ashes To Ashes (1979, “Cenere alla cenere”) alla paura esorcizzata solo dal ballo ininterrotto di Let’s Dance (1983). Con i Queen di Freddie Mercury scrisse un altro capolavoro che prendeva sul serio la vita, Under Pressure (1982): «È il terrore di sapere com’è fatto il mondo, vedendo cari amici che gridano “Fatemi uscire”, prego che il domani mi faccia rialzare».
Fu proprio al concerto in memoria di Freddie Mercury (1992) che David Bowie fece una cosa inaspettata sul palco. D’altra parte nulla di quel che ha fatto è mai stato prevedibile. Dopo aver cantato Heroes, Bowie disse: «Qui vogliamo ricordare il nostro amico Freddie Mercury, ma vorrei che ci ricordassimo anche i nostri amici, i vostri amici, i miei amici, morti di recente o tempo fa, amici o parenti che ancora vivono ma che sono stati colpiti da questa malattia implacabile [l’AIDS]. E vorrei offrire qualcosa, in maniera molto semplice, la più semplice che mi viene in mente». Detto questo, si mette in ginocchio davanti alle 72mila persone riunite nello stadio di Wembley e prega con le parole del Padre Nostro. «Dio benedica i Queen, Dio benedica voi [il pubblico]». In quel concerto che era la commemorazione funebre di un altro grande artista, Bowie si offrì quale liturgo, quasi un pastore che invita la comunità a pregare, unica parola possibile di fronte alla morte.
Eppure, da inglese qual era, Bowie non ha mai esplicitato la sua fede in maniera roboante. La fede è come la politica o l’ammontare del conto in banca: su questo anche il trasgressivo Bowie è stato tradizionalmente e conformemente discreto.
Tante, troppe cose ci sarebbero da dire su David Bowie. La sua influenza sulla musica e sul costume, la sua capacità di dettare le tendenze: una su tutte, Space Oddity uscì in contemporanea con lo sbarco dell’equipaggio dell’Apollo 11 sulla Luna. Ci limitiamo perciò a raccontare un piccolo episodio della sua vita.
La vicenda del grande musicista londinese si è incrociata brevemente con la storia delle piccole chiese protestanti italiane. Un giorno del 1992 Mario Marziale, pastore della chiesa battista di Firenze in Borgo Ognissanti, ricevette una telefonata: una grande star del rock gli chiedeva di celebrarne le nozze, ma con discrezione. Il manager di David Bowie fece la telefonata giusta: il pastore Marziale era perfettamente in grado di condurre un culto in lingua inglese e, allo stesso tempo, era un pastore di altri tempi, che non si era mai interessato di rock e pop. Il vero nome dell’artista, David Jones, non gli diceva niente. Forse, avendo imparato l’inglese a Cardiff, avrà pensato a un gallese come tanti, visto che Jones è il cognome più diffuso da quelle parti.
Il pastore Marziale chiese, come è regola, di incontrare direttamente la coppia per concordare la liturgia. Bowie e la supermodella somalo-americana Iman gli diedero appuntamento all’Excelsior di Firenze. Alla domanda sul perché voleva la benedizione del matrimonio da un pastore, il cantante rispose di essere credente. Così la benedizione del matrimonio, che già era stato celebrato civilmente a Losanna, si svolse presso la chiesa episcopale americana di St. James in via Rucellai.
Anche qui, pur con gli accorgimenti particolari e prevedibilmente necessari, David Bowie mostrò di essere come gli altri. «Io sarò un re e tu sarai una regina… possiamo essere eroi almeno per un giorno» (Heroes, 1977). Qui sta uno degli elementi dell’eccezionalità di David Bowie, artista monumentale, poliedrico, provocatorio e profondo: la consapevolezza del proprio essere un umano mortale come gli altri, che in tal modo eleva il suo pubblico al suo livello. Così ha dato un nome alle nostre ombre, ai nostri fantasmi, così ci ha proposto di affrontarli, con uno sguardo verso ciò che viene dall’alto, che sia lo Starman che aspetta nel cielo o il Lazarus che ci dice «Look up here, I’m in heaven».