La tortura che non esiste
03 dicembre 2015
La sensibilizzazione verso il tema dei diritti umani passa attraverso un bando che premia le tesi di laurea
Si tiene oggi la consegna dei premi di laurea Acat, Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura. È un evento che va al di là del riconoscimento in sé, perché volto soprattutto alla sensibilizzazione dei giovani verso il tema dei diritti umani. Il dibattito vede intervenire Valentina Calderone, direttrice dell’associazione A buon diritto, Gabriella Guido, giornalista attiva nella campagna di lasciateCIEntrare, nata nel 2011 per l’abrogazione della circolare governativa che proibiva l’ingresso di giornalisti e politici nei centri di accoglienza per richiedenti asilo e Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International; il dibattito è coordinato da Stefano Corradino, giornalista direttore della testata Articolo 21. La tavola, intitolata “Media, diritti umani e tortura in Italia”, viene presentata dal presidente di Acat, Massimo Corti.
In che modo la consegna di questi premi di laurea vuole sensibilizzare?
«Il premio di laurea, arrivato alla sesta edizione e finanziato dal contributo dell’8x1000 della Tavola Valdese, ha lo scopo di premiare i più bravi ma soprattutto di diffondere un messaggio di giustizia, amore e rispetto dei diritti umani. Siamo convinti che anche soltanto la lettura del bando possa accendere una luce nella testa degli universitari che si trovano così ad affrontare questi temi».
Cosa si intende con la parola “tortura”?
«Secondo la definizione Onu del 1989, tortura è quando si fa violenza fisica o psicologica su una persona o sui suoi cari per ottenere informazioni, per farlo tacere, per piegarne la volontà, per farlo parlare o comunque per sopprimere la voce di una minoranza. Nel codice penale italiano la tortura non è contemplata e questo è un grande problema: alla domanda “cos’è la tortura”, nel nostro paese si fa riferimento a qualcosa che non esiste. Ovviamente è solo il reato a non esistere, mentre la realtà dei fatti è ben diversa. Basta fare riferimento alla condanna europea dell’Italia per le torture dei fatti di Genova, per i quali la corte europea per i diritti umani ha sentenziato che si è trattato di tortura. Basta pensare alla morte di Stefano Cucchi e di Federico Aldrovandi. Nella dichiarazione dei diritti dell’uomo, alla voce “tortura” si parla di trattamenti inumani e degradanti, come è la situazione di sovraffollamento nelle nostre carceri. Possiamo ancora citare i Cie, centri di identificazione ed espulsione dei migranti, dove queste persone stanno fino a 18 mesi in un mondo di nessuno, senza diritti e senza nome. Purtroppo la situazione italiana non è molto rosea».
Esiste in Italia un dibattito sulla tortura nel mondo cristiano, ci sono realtà che si dissociano dalle vostre campagne?
«No, ma diciamo che nel mondo cristiano non c’è un grande dibattito su questo argomento e quel poco che c’è è tutto allineato con noi, cioè contro questi comportamenti inumani su altri fratelli.
Il Papa ha fatto un intervento chiaro contro la tortura l’anno scorso, il 26 giugno in occasione della giornata mondiale per le vittime di tortura dichiarando che è un peccato e per i cristiani è una cosa inconcepibile e vergognosa. C’è una posizione formale e ufficiale della chiesa cattolica, tutte le chiese interpellate rispondono nello stesso modo.
Posso dire però che ci sono molti interessi in gioco e si dichiarano cristiane anche persone che sono contro i migranti, persone che in nome della sicurezza sono disponibili a fare una serie di eccezioni ai principi. Però è vero che non c’è dibattito».
Che interesse c’è nel fomentare l’intolleranza?
«Sicuramente c’è un interesse politico. Uno schieramento che fa del rifiuto della straniero una bandiera si appropria del pensiero tipico “io non ce l’ho con loro, ma non li voglio nel mio giardino”. Queste persone aizzano quella che potremmo chiamare una guerra tra poveri, fomentando il pensiero che le risorse dello stato sono limitate e se spendiamo tanti milioni per i migranti per i poveri disoccupati italiani non rimangono soldi. Soffiando su questo tipo di fuoco, si ottengono voti».
Il titolo del dibattito è “Media, diritti umani e tortura in Italia”. Possiamo analizzare la tensione tra questi due ambiti, l’informazione e i diritti umani?
«Possiamo allacciarci a quanto detto sugli interessi in gioco in Italia e nel resto del mondo, dei partiti politici o di ideologie, per cui la presentazione dei diritti umani molto spesso è interpretata in modo da portare il risultato dove sono gli interessi reali. Io mi ricordo, rispetto ai fatti di Genova, che sui giornali si parlava di terribili rivoluzionari che per fortuna la polizia aveva calmato e sedato. L’informazione era completamente errata e piegata ad interessi di parte.
Possiamo fare riferimento ad ambiti culturali diversi: per esempio nei film con un James Bond qualunque che prende il cattivo, lo costringe con la forza per farsi dare le informazioni che gli interessano, c’è una banalizzazione della tortura che sembra quasi accettabile; si può dire che James Bond fa bene ad agire così, altrimenti come farebbe a sapere le cose? Un articolo sul NewYork Times di qualche tempo fa faceva un’analisi di come le fiction televisive e quelle poliziesche banalizzano la tortura e la presentano come una cosa, non dico buona, ma tutto sommato necessaria per vivere. Questa situazione di rappresentazione della tortura, e dei diritti umani in generale, piegata a un fatto drammatico filmico che mi serve oppure a interessi di teologie e partiti, vede una rappresentazione non fedele della realtà. E’ una banalizzazione che rende quotidiano ed accettabile quello che non dovrebbe essere né quotidiano né accettabile».