Il cinghiale non scrive
28 ottobre 2015
Rubrica «Finestra aperta» della trasmissione di Radiouno «Culto evangelico» curata dalla Fcei, andata in onda domenica 25 ottobre
Che cosa succede in un territorio nel quale, per qualche ragione, l’insediamento umano precedente, non c’è più? In particolare che cosa accade alla natura? L’osservazione comune in casi in cui per ragioni di conflitti armati, o di massiccia emigrazione, è che là dove la presenza umana arretra la natura avanza e rifiorisce. Ma il dato più interessante, al limite dello sconcerto, è quello rilevato a Chernobyl, dove, a quasi trenta anni dal grave incidente nucleare del marzo 1986, uno studio effettuato sulla presenza dei mammiferi ne constatata la proliferazione.
Dopo l’inevitabile abbandono della zona della centrale di oltre 116.000 persone, si è constatato che all’inizio gli animali hanno sofferto un’alta incidenza di tumori causati dalle radiazioni, ma hanno continuato a riprodursi, così che lupi, alci, cervi, cinghiali e caprioli hanno ripopolato il territorio con percentuali più alte di quelle delle riserve naturali. La conclusione è amarissima: l’insediamento umano è più ostile alla natura di quanto non lo siano le radiazioni di uno degli incidenti nucleari più gravi mai avvenuti. Ma l’esplosione della biodiversità si è constatata anche in territori devastati e poi abbandonati a causa di guerre, o anche a causa dell’emigrazione. Sugli appennini abruzzesi, ad esempio, si è notato questo fenomeno.
Nella sua breve rubrica quotidiana, il giornalista Michele Serra, qualche giorno fa, notava con particolare efficacia, a proposito dell’incompatibilità tra umanesimo e naturismo, che a poco servirebbe la rigogliosità della natura se non ci fosse il linguaggio umano per descriverla e la memoria per ricordarne la bellezza, e conclude con una affermazione di particolare efficacia: «O il cinghiale impara a scrivere e l’alce a dipingere, o è meglio progettare (riformandola) la persistenza umana sul pianeta».
Come non essere d’accordo? Coltivare la speranza che l’umanità impari a vivere in un rapporto più armonioso con la natura deve però farsi progetto politico. La prossima conferenza delle Nazioni Unite, sul clima, che si terrà a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre, sarà un eccellente banco di prova per misurare la reale volontà politica anche di grandi superpotenze come Usa e Cina, per stabilire accordi vincolanti per limitare la produzioni di gas responsabili dell’effetto serra, e per impegnarsi, con azioni concrete, a limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centigradi. Nel nostro Paese, inoltre, speriamo che si arrivi al definitivo abbandono del carbone nella produzione di energia come le organizzazioni ambientaliste chiedono oramai da anni di fare.
Le chiese cristiane, a partire da una rivisitazione della propria teologia, sono in larga parte schierate per la Salvaguardia del Creato. L’impegno dichiarato in tanti documenti ecumenici, deve però ogni giorno di più farsi lista di buone pratiche da parte delle comunità stesse e dei propri membri. Una rivoluzione etica e culturale profonda che oggi si accompagna sempre di più alla riscoperta spirituale di essere noi stessi parte di quella creazione che il suo stesso Artefice nel principio dichiarò «buona». Anzi molto buona!