e-Vangelizzazione
20 luglio 2015
Evangelizzare ai tempi del web 2.0 dove si possono geolocalizzare i proseliti. Evangelizzare tramite social network; cosa vuole dire, come lo si fa, quali sono le differenze rispetto al passato. Peter Ciaccio riflette su questi temi, con la curiosità del connesso, consapevole delle opportunità della rete e di come la condivisione delle idee, dei pensieri siano una sfida da cogliere non solo dal punto di vista della comunicazione ma perché delineano ciò che siamo, la nostra identità di credenti, il nostro modo di annunciare Cristo nostro Signore
L’atteggiamento di fronte ai Social Network, a Internet o ai computer in generale è solitamente duplice, quasi dualista. Potremmo tracciare una linea per dividere in due gruppi le varie reazioni e sentimenti rispetto alle nuove tecnologie, ai nuovi media.
Da una parte c’è il positivo (bello, fantastico, buono, non-posso-più-vivere-senza, potenziante), dall’altra il negativo (freddo, alieno, asociale, non-ne-so-niente, non-si-può-far-più-nulla-come-una-volta).
Hanno ragione i “negativi”: non si può far più nulla come una volta, perché è cambiato il mondo e i nuovi media sono motore ed espressione di questo cambiamento. Pur essendo una reazione legittima, non ha però molto senso lamentarsi che il mondo sia cambiato. Se il mondo è cambiato devi adattarti al nuovo mondo. Erroneamente si raccontano le teorie evoluzioniste di Darwin come “vince il più forte”: avremo ancora qualche dinosauro in giro o i giganti citati in Genesi 6. L’evoluzione umana mostra che vince chi si adatta. Adattarsi non significa rinunciare a se stessi, alla propria identità, alla propria visione del mondo, ma farli sopravvivere insieme a chi le esprime.
Pertanto, pur consapevole di non riuscire a nascondere del tutto il mio entusiasmo per i nuovi media, cercherò di fornire alcune piste di comprensione e di adattamento. Questo non significa che i nuovi media siano neutri. Gli strumenti che l’essere umano usa non sono neutri, ma sono responsabili della sua evoluzione. La nostra natura è “cibernetica”, nel senso che è costituita dall’interazione tra il nostro corpo e i potenziamenti che vi applichiamo. Mutatis mutandis — e facendo una battuta — quando la Tavola assegna un pastore a una sede composta da più chiese, non considera il pastore in sé o le chiese in sé, ma vede se ci sono dei trasporti pubblici tra le chiese, se il pastore ha la patente, se ha la macchina. Per anni il mio ministero è stato quello del pastore con macchina. Niente di nuovo, se pensiamo al Circuit Rider di tradizione metodista, il pastore itinerante ritratto sempre a dorso del suo cavallo. Non era un pastore, ma un pastore con cavallo. Non stupiamoci se le nuove tecnologie e possibilità dell’essere umano cambieranno il ministero e il nostro modo di essere chiesa.
La Rete oggi permette la circolazione delle idee e delle merci come non mai. Posso scaricarmi un libro elettronico pubblicato negli USA a mezzanotte e un minuto del giorno di uscita, magari comodamente sdraiato nel letto di casa mia.
Come ogni novità, la rivoluzione informatica e la sua versione 2.0 portano con sé una valanga di neologismi e di parole dal nuovo significato. Il pollice che significa “mi piace” e il cancelletto “#” che, da tasto inutile delle nostre tastiere e telefoni, diventa un importante simbolo usato milioni di volte al giorno dalla gente comune in quanto hashtag, sono solo due esempi di questo. Il punto è: non abbiate paura, ma siate curiosi. Non abbiate paura a chiedere e, se non volete chiedere, Internet vi viene incontro: cercate le parole che non capite su Google e avrete la risposta, spesso esposta in maniera chiarissima. Se non cercate il significato di queste misteriose parole, acronimi o simboli, rischierete di non comprendere il catecumeno — esempio vero! —che ad una battuta risponde «LOL!» (ovvero «da sbellicarsi!») e dunque rischiate di aumentare il solco che già la diversa età pone tra di voi.
Tra l’altro molti di questi termini hanno dei paralleli teologici: “salvare” un lavoro, “giustificare” un documento, “convertire” un file, “seguire” un utente di Twitter, “condividi” un contenuto etc. Ci sono anche delle tensioni tra i significati teologici e quelli informatici: un post “salvato” online, qualora avesse degli errori, “condanna” senza grazia l’autore degli errori. Per questo recentemente si è parlato di diritto all’oblio.
Esiste una nuova dimensione della privacy: cosa condivido e con chi? Finché stavamo tutti nelle nostre case, il problema della privacy era legato alla presenza o meno di una chiave per la porta del bagno. E ora? È cambiato tutto: basta farsi un giro su Facebook per trovare genitori che postano foto dei propri figli senza nessuna restrizione di privacy. Foto che girano e che possono essere copiate da chiunque, per i fini più loschi o comunque altri da quelli di chi li ha postati in primo luogo. I social network dimostrano che siamo più incauti davanti a un computer o al telefono che di persona.
Da qualche tempo il sistema di localizzazione satellitare GPS è accessibile a tutti. Posso far sapere a tutti dove mi trovo e sapere chi si trova vicino a me. In altre parole, la geolocalizzazione mi suggerisce chi è il mio prossimo.
Tutte queste novità pongono una sfida alle nostre chiese, nel solco della loro tradizione: l’alfabetizzazione. Come protestanti che abbiamo messo al primo posto sempre la scuola e la formazione, non possiamo stare a guardare il cosiddetto digital divide, ovvero l’handicap informatico che separa alcune persone da altre, che crea disparità e ulteriori ingiustizie. Forse ha senso cominciare a pensare nuove forme di formazione rispetto a questi temi, da offrire ai nostri membri di chiesa e alla società. Tra l’altro, appare sempre più imprescindibile la conoscenza della lingua inglese.
E’ troppo lungo da affrontare in questa sede, ma con i social network si pone il problema dell’autenticità dei contenuti e delle relazioni. La rete pullula di cosiddette “bufale” e falsi profili personali, a volte costruiti con intento fraudolento. L’aspetto positivo di questa criticità è che il fattore umano è paradossalmente molto più importante ora che precedentemente. Se infatti prima bastava andare a verificare le fonti, ora bisogna incrociare fonti e discernimento, con un lavoro mentale che finora nessun algoritmo è riuscito a sostituire degnamente.
Un protestante è per definizione anche un romantico umanista. La rivoluzione protestante nasce come riscoperta delle radici. Il corteggiamento di Guillaume Farel nei confronti del movimento valdese nasce appunto per nobilitare la Riforma e mostrare come, in buona sostanza, sono sempre esistiti cristiani “veri” che seguivano il puro Evangelo, opponendosi alla corruzione papista.
In realtà, però, l’homo protestans si sovrappone in parte all’homo gutenbergensis, ovvero all’essere umano che si è potenziato dotandosi di libri stampati. Senza l’invenzione di Gutenberg della stampa a caratteri mobili, non sarebbe esistito il protestantesimo. La Bibbia presente in ogni chiesa, in ogni casa, in ogni occasione, la stampa protestante, il volantino, il foglio liturgico, gli innari, le relazioni, i regolamenti: non sapremmo condurre un culto senza la stampa. Ovvero, potremmo andare avanti, seguire l’evoluzione informatica, ma non riusciremmo a tornare indietro. Gli strumenti mutano la natura dell’essere umano. La stampa ci ha reso diversi. Ha reso particolare la nostra fede, legata alla Parola e alle parole. Come trasmetto la dottrina? Con un libro: e nasce il genere letterario “catechismo”. Oppure — domanda cruciale — chi è Gesù? La Parola di Dio incarnata. Ora è da stabilire se la nuova rivoluzione mediatica sia in continuità o in rottura con la tecnologia che per 500 anni è stata fondamentale per le nostre chiese.
Padre Antonio Spadaro, gesuita e direttore de La civiltà cattolica, l’uomo che è dietro l’immagine mediatica di papa Francesco, sostiene nel suo testo più noto sull’argomento (Cyberteologia) che finalmente Gutenberg è stato messo in soffitta e che una modalità più cattolica di relazionarsi si stia affermando. In altre parole, al centro l’Uomo — tema caro all’antropologia e morale cattolica — e non le parole, i testi, la dialettica, la ragione. Insomma, ciò che il Concilio di Trento non è riuscito a fare, che il Vaticano I non è riuscito ad arginare, che il Vaticano II non è riuscito ad assorbire e ri-semantizzare, lo sta facendo Internet, vero e proprio «dono di Dio» (papa Francesco, 24.1.2014).
Il teologo metodista americano Leonard Sweet sostiene — guarda un po’ — il contrario, addirittura che i social network siano la miccia di un nuovo risveglio — categoria tradizionalmente evangelica — e che al centro della rivoluzione informatica ci sia non l’Uomo, ma una nuova visione di Cristo. Secondo Sweet, la generazione 2.0 (che lui chiama dei “Googler” in contrapposizione ai “Gutenberger”) è attratta non solo dalle idee — come i loro predecessori —, ma anche dalle relazioni. Pertanto «è più facile parlare a loro di Gesù che dei cinque “sola” del protestantesimo o dell’elezione eterna di Israele, perché è la persona di Gesù è più attraente dei pensieri e delle dottrine su Gesù». E ancora, «Gesù non venne sulla terra affinché generazioni di discepoli potessero dimostrare il proprio punto di vista: Gesù è il Punto». E continua, «i googler sono intuitivamente portati ad avvicinarsi al Gesù reale, Colui il quale non è mediato dai tentativi dei gutenberger di imporgli formule, proposizioni e strutture».
Chi ha ragione tra Spadaro e Sweet? Ovviamente Sweet, secondo me. Tuttavia, forse la domanda è sbagliata. Entrambi hanno infatti ragione, dal loro punto di vista. Spadaro offre una via di adattamento al cattolicesimo e Sweet al protestantesimo. Ancora Darwin: per sopravvivere — se stessi e la propria cultura — bisogna adattarsi. Chi non ci riesce, muore.
Prendendo spunto da Leonard Sweet, chi è il Cristo di oggi, dell’epoca dei social network, il “Cristo 2.0”? Più o meno consapevolmente per secoli è stato un enunciato da sapere. Alle domande del catechismo bisognava rispondere a memoria come si trattasse di un teorema euclideo. Senza gettare la dottrina dalla finestra — non sia mai! — ma anzi facendone tesoro, ora dobbiamo concentrarci di più sul Gesù Cristo come persona da conoscere, con cui relazionarsi. A pensarci un attimo, è lo stesso approccio del Catechismo di Heidelberg del 1563: non enunciare Dio, ma mettere in relazione il catecumeno con Cristo. Ed è un approccio simile ai racconti evangelici. A titolo d’esempio, ricordiamo il cieco guarito da Gesù che, all’interrogatorio subito sull’identità di Gesù risponde: «Se egli sia un peccatore, non so; una cosa so, che ero cieco e ora ci vedo» (Giovanni 9,25). Oppure pensiamo ai discepoli di Emmaus: Gesù spiega e rispiega come stanno le cose, ma loro lo riconoscono solo nel gesto della frazione del pane. Sugli enunciati vince la relazione.
Si pone dunque la domanda: noi seguiamo Gesù perché abbiamo sposato le sue tesi oppure perché ha cambiato la nostra vita? Paradossalmente, la risposta più moderna è anche quella più antica, quella precedente alla definizione della dottrina.
Quando valdesi e metodisti parlano della propria chiesa, cosa dicono? Semplifico provocatoriamente: i valdesi parlano dei Poveri di Lione e del Ghetto Alpino, mentre i metodisti parlano dello storico impegno sociale. Quando va bene, parlano entrambi del Risorgimento e del sogno — che viviamo come un sogno passato che, però, non si è mai avverato — di una riforma religiosa dell’Italia, com’è successo nelle celebrazioni del 2011.
Come ci vengono bene le celebrazioni: 1989, 1998, 2011 e tra poco 2017. Ma riusciamo a dire chi sono valdesi e metodisti oggi? Riesco a dire chi sono io oggi, senza necessariamente parlando di Valdo, Calvino o Wesley, ma parlando di Gesù e di una comunità che vive una relazione con Gesù? Possiamo farci conoscere oggi, incidere oggi sulla vita dei nostri membri e degli altri? Tra parentesi, ai suoi tempi, Lutero vinse la sua rivoluzione non solo perché la sua teologia era più convincente, ma anche perché ha cambiato la vita dei suoi contemporanei.
C’è un aspetto della Rete che è particolarmente — anche se involontariamente —protestante: il rapporto con l’autorità. L’autorità non è “clericale”: puoi essere un premio Nobel, ma se dici stupidaggini non puoi scrivere su Wikipedia (è successo!). Allo stesso tempo la Rete cambia la prospettiva: le idee si costruiscono e si sviluppano insieme. Se chi incontriamo ragiona così, potrebbe essere un aspetto comune al nostro modo di vivere insieme la fede in Cristo?
Non c’è una conclusione a questa riflessione, una riflessione 2.0 che acquista senso solo nella misura viene commentata e sviluppata da chi l’ha letta e ascoltata. Non c’è infatti una risposta univoca alla domanda su come evangelizzare — nel doppio senso di annunciare la buona notizia di Gesù e allargare la nostra comunità di discepoli — nell’era dei social network. I tentativi di risposta e gli eventuali passi avanti possono venire solo dalla condivisione dei pensieri, delle idee, ma soprattutto del cammino che facciamo e faremo insieme.