«Una negra non può diventare avvocato»
19 maggio 2015
Frasi razziste contro una studentessa modello senegalese che frequenta una scuola di Pisa. Intervista a Mercedes Frias, dell’ass. nazionale Prendiamo la parola
«Non si è mai vista una negra che prende 10 in Diritto»: è una delle tante frasi di disprezzo scritte in sei lettere anonime (quattro scritte al computer e due a mano) indirizzate ad una ragazzina di 14 anni di origine senegalese che studia in un istituto tecnico di Pisa. Il padre, in Italia da 15 anni, ha denunciato i fatti ai carabinieri. La ragazza, considerata dagli insegnanti una delle migliori della classe, vorrebbe studiare giurisprudenza. «Hanno anche scritto che non esiste che una negra possa diventare avvocato», ha raccontato la ragazzina.
Sull’episodio abbiamo chiesto un commento a Mercedes Frias, credente evangelica, deputata dal 2006 al 2008, membro di Prendiamo la parola, associazione nazionale nata per iniziativa di un gruppo di persone immigrate o di origine straniera coinvolte a vario titolo nella vita politica, sindacale e culturale del Paese.
Il problema è che in generale, seguendo i soliti stereotipi, la gente si aspetta che i neri sappiano fare alcune cose, come ad esempio essere bravi nello sport, ambito consolidato che, in un certo senso – lasciami passare questa espressione un po’ forte – rimanda all’animalità dei neri. Secondo questo preconcetto, un nero può correre veloce, saltare in alto, può essere un bravo calciatore, ma avere cervello no, non ti è permesso, non puoi riuscire bene a scuola, non puoi essere il più bravo della classe. Purtroppo è questa l’idea che passa e arriva ai ragazzi. Non diamo tutta la colpa ai genitori, in parte senza dubbio c’è, ma vi è in Italia una diffusa cultura discriminatoria che produce quest’idea e anche le reazioni a sfondo razzista, come quella avvenuta nella scuola di Pisa.
Perché registriamo un’escalation di violenza contro il diverso?
È da anni che si fa “imprenditoria politica” sul razzismo. Si fa “finta informazione” che non fa altro che creare allarmismo, trovare capri espiatori della crisi in cui viviamo. Prendiamo, ad esempio, la questione dei barconi in mare carichi di tante persone che fuggono da situazioni di grave disagio economico e dalle persecuzioni: proporre quelle immagini senza dire che la maggior parte degli stranieri entrano in Italia per altre vie, comunica l’idea dell’assedio da parte di queste persone che arrivati nel nostro Paese, si prendono quel poco che abbiamo, facendoci diventare più poveri. Questo tipo di informazione distorta arriva quotidianamente e passa ai ragazzi che, sprovvisti di guide efficaci, la elaborano nel modo sbagliato.
Cosa occorre fare?
L’episodio di cui stiamo parlando è successo in una scuola della Toscana, dove vivo da tanti anni. Sono testimone che in questa regione diverse associazioni, organizzazioni ma anche privati, lavorano da anni nelle scuole proponendo ai ragazzi laboratori sull’intercultura, sulla costruzione di una società inclusiva, sulla lotta alla xenofobia e al razzismo. Penso che sia necessario continuare a farlo, ma non solo con i ragazzi, bisogna coinvolgere il mondo della scuola che comprende gli insegnanti, i dirigenti e anche i genitori. Ma soprattutto occorre che ci sia un codice della comunicazione, soprattutto dell’informazione, molto rigido che venga rispettato. Ci sono alcuni tentativi importanti: c’è la «Carta di Roma» (protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti, ndr), c’è un pool di associazioni di giornalisti antirazzisti, ma non basta. Quando vengono veicolate determinate immagini e pubblicati titoli che parlano di “assedio”, “invasione”, “esodo”, il danno è fatto. Bisogna vigilare ed essere sempre pronti a reagire a questo tipo di informazione se vogliamo costruire un’Italia più giusta e inclusiva.